Non c’è riciclaggio senza prova del reato fiscale e del superamento della soglia di punibilità

Di Maria Francesca ARTUSI

Per il riciclaggio è necessaria la prova dell’esistenza del reato presupposto nei suoi elementi fondamentali. Alla luce di tale affermazione, la Corte di Cassazione – nella sentenza n. 19849 depositata ieri – ha escluso la rilevanza penale di una condotta di trasferimento del profitto di una evasione fiscale non accertata.

Si trattava di una serie di operazioni di trasferimento di denaro (per un totale di 613.833,37 euro) custodito sui conti correnti di una banca svizzera intestati a due coniugi italiani e poi spostato su un conto corrente di una banca sanmarinese intestato ad una società inglese amministrata da altro soggetto (colui che è stato accusato di riciclaggio), e poi ancora su un altro conto dello stesso istituto di credito sanmarinese, nuovamente intestato ai due coniugi. Lo scopo appariva quello di ostacolare la provenienza di tale denaro dal reato fiscale di infedele dichiarazione previsto dall’art. 4 DLgs. 74/2000 commesso dal titolare del conto corrente svizzero su cui era depositato l’originario profitto dell’illecito fiscale.

Se così è, appare fondamentale, ai fini della contestazione del riciclaggio l’accertamento del reato presupposto (in questo caso del reato tributario). Proprio su questo aspetto si sofferma la Cassazione, contestando le argomentazioni della Corte d’appello che aveva ritenuto provata l’esistenza della dichiarazione infedele sulla base della documentazione contabile acquisita, che aveva permesso di accertare la presenza dell’ingente somma su conti correnti bancari svizzeri, a fronte di un’omessa indicazione nella dichiarazione dei redditi di quell’importo, non essendo stato compilato il quadro RW riservato ai redditi prodotti all’estero. Su tale reddito il titolare del conto, cittadino italiano, avrebbe dovuto pagare le imposte in Italia, in quanto relativo ad una somma mai sottoposta a tassazione negli anni precedenti che, perciò, doveva considerarsi integralmente tassabile nell’anno in cui ne era stata accertata l’esistenza.

Diversamente, i giudici di legittimità evidenziano come tale materia sia disciplinata dal DL 167/1990 che, nel regolare la rilevazione a fini fiscali di trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori, prevede una serie di obblighi dichiarativi a carico dei contribuenti italiani con finalità di “monitoraggio fiscale”, allo scopo di controllare che, attraverso transazioni finanziarie da e per l’estero, soggetti tenuti al pagamento delle tasse in Italia non possano sottrarre proprie ricchezze al controllo erariale. A tal fine è stato previsto che chi è tenuto alla presentazione della dichiarazione annuale dei redditi deve compilare il quadro RW segnalando i movimenti e l’ammontare delle ricchezze detenute all’estero.

Tale disciplina – in seguito modificata da vari provvedimenti legislativi e, in gran parte, riscritta dalla legge 97/2013 (con variazioni che qui non rilevano perché successive ai fatti di causa) – è complementare a norme con le quali si è ritenuto, con misure straordinarie, di consentire forme di voluntary disclosure per il rientro in Italia di risorse finanziarie detenute all’estero in violazione di quelle nome sul monitoraggio fiscale. Essa non prevede, però, un apparato sanzionatorio penale in caso di violazione dell’obbligo dichiarativo. Per il mancato adempimento di tale obbligo sono, infatti, previste esclusivamente sanzioni pecuniarie di natura ammnistrativa ovvero, in casi speciali, misure di confisca per equivalente sempre di natura amministrativa (art. 5 del DL 167/1990 e successive modifiche), alle quali si sono affiancate, ma solo a partire dal 2014, ulteriori sanzioni pecuniarie amministrative per il mancato pagamento delle imposte IVAFE e IVIE.

Per la Cassazione in siffatte situazioni non è nemmeno applicabile l’art. 4 del DLgs. 74/2000, in quanto integra gli estremi del reato previsto da tale fattispecie esclusivamente la condotta di chi, al fine di evadere le imposte dei redditi o sul valore aggiunto, presenta una dichiarazione infedele relativa a quelle imposte. Al contrario, la somma di denaro detenuta da un contribuente italiano su un conto corrente di una banca estera (così come uno strumento finanziario o un bene immobile) non è considerata, di per sé sola, parte del reddito imponibile, restando tassabili in Italia alle condizioni prescritte dalla legge esclusivamente le rendite – come gli interessi conseguiti da un investimento finanziario o le rendite immobiliari – che il bene detenuto all’estero dovesse eventualmente produrre; rendite che, peraltro, vanno dichiarate in quadri della dichiarazione dei redditi diversi dal quadro RW.

Non è quindi giuridicamente corretta – secondo la sentenza in commento – l’affermazione secondo cui l’importo detenuto in Svizzera era integralmente (e automaticamente) tassabile ai fini dell’imposta sui redditi (per l’anno 2003 preso in considerazione nel caso di specie). Tanto meno, potevano ritenersi superate le soglie di punibilità previste dal citato art. 4, quali elementi costitutivi del delitto presupposto del riciclaggio; e dunque non appare configurabile il riciclaggio previsto dall’art. 648-bis c.p.