Non possono essere applicate dal giudice in violazione dell’accordo processuale tra le parti, data la natura di sanzioni principali e non accessorie

Di Maria Francesca ARTUSI

In tema di responsabilità da reato degli enti, l’art. 9 comma 2 del DLgs. 231/2001 prevede delle sanzioni interdittive che conseguono ad alcuni dei reati-presupposto: interdizione dall’esercizio dell’attività; sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Si tratta di sanzioni particolarmente incidenti applicabili solo per i reati per i quali sono espressamente previste (ad esempio, sono escluse nel caso di reati societari) e quando ricorrono determinate condizioni: oltre all’interesse e al vantaggio per l’ente (art. 5 del DLgs. 231/2001), dovrà essere accertato il fatto che la società abbia tratto dal reato un profitto di rilevante entità e il reato sia stato commesso da soggetti in posizione apicale ovvero da soggetti sottoposti all’altrui direzione quando, in questo caso, la commissione del reato sia stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative ovvero, in alternativa, che vi sia reiterazione degli illeciti (art. 13 del DLgs. 231/2001).

Come la giurisprudenza ha già avuto modo di precisare, si tratta di sanzioni “principali” e non “accessorie”, come è desumibile dai contenuti della norma dell’art. 14 del DLgs. 231/2001, che ne definisce le modalità di commisurazione e di scelta, richiamando il corrispondente art. 11 sulle sanzioni pecuniarie quanto all’individuazione dei criteri per la loro determinazione nel tipo e nella durata, tenendo conto dell’idoneità delle singole sanzioni a prevenire illeciti del tipo di quello commesso (Cass. n. 45472/2016).

La pronuncia della Cassazione n. 14696/2021 torna a ribadire tale affermazione, declinandone le conseguenze nelle ipotesi di “patteggiamento”.
Nel caso di specie, a seguito di un accordo tra le parti ex art. 444 c.p.p., era stata comminata ad una srl una sanzione pecuniaria di 12.900 euro corrispondente a 50 quote societarie, quale ente responsabile per il reato di lesioni colpose con violazione della normativa antinfortunistica (art. 590 comma 3 c.p. in relazione all’art. 25-septies comma 3 del DLgs. 231/2001). Il Tribunale, tuttavia, aveva disposto in aggiunta che “vanno applicate le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9 comma 2 del DLgs. 231/2001, per la durata di mesi tre”.

Proprio dalla citata natura di sanzioni principali delle sanzioni interdittive, i giudici di legittimità derivano il principio per cui, in caso di “patteggiamento” ai sensi dell’art. 444 c.p.p., queste ultime devono essere oggetto di un espresso accordo processuale tra le parti, mediante il quale vengano preventivamente stabiliti il tipo e la durata della sanzione ex art. 9 comma 2 del DLgs. 231/2001 in concreto da applicarsi, e non possono essere applicate dal giudice in violazione dell’accordo medesimo.

Ne consegue l’illegittimità della sentenza di merito nella parte in cui ha applicato cumulativamente le sanzioni interdittive, per averle disposte in violazione dell’accordo processuale raggiunto dalle parti, avente ad oggetto la sola sanzione pecuniaria (“ultra petita”). Il rapporto negoziale intercorso tra le parti preclude, infatti, al giudice di applicare una sanzione diversa da quella concordata, in quanto la modifica peggiorativa (“in peius”) del trattamento sanzionatorio, sia pure nei limiti della misura legale, altera i termini dell’accordo ed incide sul consenso prestato.

La condanna appare altresì viziata per la carenza di motivazione con cui il giudice di merito ha cumulativamente applicato tutte le sanzioni interdittive previste dall’art. 9 comma 2. La scelta della sanzione interdittiva concretamente da applicarsi deve, infatti, avvenire nel rispetto dei criteri fissati (per le sanzioni pecuniarie) dall’art. 11 del DLgs. 231/2001 – e cioè: “tenendo conto della gravità del fatto, del grado della responsabilità dell’ente nonché dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti” –, nella ricorrenza di almeno una delle condizioni richieste dalle lett. a) e b) del successivo art. 13 (di cui si è detto sopra).

È, dunque, indispensabile per il giudice esplicare in base a quali criteri e nella ricorrenza di quali presupposti è stato ritenuto necessario disporre l’applicazione della sanzione interdittiva – o anche di più sanzioni – rappresentando le modalità attraverso cui si è pervenuti alla scelta del relativo tipo e della sua durata.