Il profitto conseguito dalla società che le «utilizza» deve tenersi distinto da quello, solo eventuale, dell’ente emittente

Di Stefano COMELLINI

Il reato di emissione di fatture soggettivamente inesistenti (art. 8 del DLgs. n. 74/2000) permette all’ente destinatario che le utilizza inserendole nella propria contabilità (art. 2) di conseguire un ingiusto profitto, ma non richiede necessariamente per la sua sussistenza un analogo vantaggio patrimoniale. Il principio è stato affermato dalla Cassazione con la sentenza n. 16353 depositata ieri.

La vicenda riguardava un complesso meccanismo criminoso, protrattosi per più anni con identico modus operandi, finalizzato all’acquisto e alla rivendita di ingenti quantitativi di carburante soggetto ad agevolazione per l’impiego in agricoltura, ma in realtà destinato ad usi gravati da maggiore imposta (in particolare, autotrazione), ottenendo, in tal modo, un ingiusto profitto conseguente all’evasione delle accise e dell’IVA.

La polizia giudiziaria – a mezzo di servizi di appostamento, rilevazioni contabili, acquisizioni di documentazione presso i depositi commerciali di prodotti petroliferi e presso imprese agricole, intercettazioni telefoniche, richieste di dati agli uffici competenti al rilascio delle autorizzazioni per l’utilizzo agevolato del gasolio – aveva accertato che l’associazione criminosa si serviva, per compiere le operazioni fraudolente, di taluni soggetti esercenti depositi commerciali che emettevano fatture soggettivamente inesistenti attestanti la vendita del prodotto ad altri soggetti in realtà ignari della fornitura stessa, a fronte della presentazione da parte di alcuni acquirenti privi dei requisiti necessari (o perché del tutto non legittimati o perché titolari di un quantitativo inferiore rispetto a quello erogato o perché già beneficiari della quota acquistabile nel corso dell’anno solare e dunque non più nelle condizioni di poter usufruire delle agevolazioni fiscali previste per legge) di libretti Uma (“Utenti Motori Agricoli”) falsificati o contraffatti, senza annotare tali forniture nei libretti fiscali, così sottraendosi fraudolentemente agli specifici sistemi di controllo.

La normativa di settore prevede, infatti, che gli esercenti i depositi commerciali possano cedere gasolio ad uso agevolato solo ai soggetti autorizzati o legittimati tramite libretto Uma, che la cessione debba essere annotata dal titolare del libretto Uma con specificazione del quantitativo di prodotto acquistato e che detta annotazione debba essere convalidata all’atto della fornitura dall’esercente il deposito tramite l’apposizione di firma e timbro sul detto libretto e contestuale annotazione della fornitura sul registro tenuto presso il proprio deposito.

Nel caso di specie, la consultazione del portale “fattura elettronica e banca dati Uma” ha consentito alla GdF di accertare che, tra i principali distributori di gasolio, vi erano le società amministrate dai ricorrenti, per conto delle quali erano state eseguite ingenti forniture illecite di gasolio

Di qui, la contestazione dei reati di associazione a delinquere (art. 416 c.p.), di irregolarità nella circolazione di prodotti petroliferi con documenti soggettivamente falsi (artt. 40 e 49 del DLgs. n. 504/1995) e, appunto, di emissione e utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti. Contestazioni da cui sortivano misure cautelari personali e patrimoniali oggetto dei ricorsi degli indagati.

Nel rigettare i ricorsi, la Corte ha evidenziato come l’argomentazione difensiva per cui dalle operazioni fraudolente non sarebbe potuto scaturire alcun vantaggio economico in capo alla società legalmente rappresentata dal ricorrente perché, al tempo della consumazione del reato di cui all’art. 8 del DLgs. n. 74/2000, già sottoposta ad amministrazione giudiziaria, abbia omesso di considerare che il reato di emissione di fatture soggettivamente inesistenti, per definizione, consente all’ente destinatario della falsa fattura di conseguire un ingiusto profitto in termini economici, ma non comporta necessariamente un analogo vantaggio in capo all’ente che la emette.

In verità, ha proseguito la Corte, le operazioni di emissione di fatture inesistenti vedono coinvolti due soggetti: una società che emette le fatture (art. 8 del DLgs. n. 74/2000) e una società che le “utilizza” (responsabile ex art. 2 del DLgs. n. 74/2000), portandole in detrazione inserendole nella sua contabilità; e il profitto conseguito da quest’ultima, pari al risparmio di imposta, deve tenersi distinto da quello, solo eventuale, dell’ente emittente, pari al prezzo (compenso) per l’emissione delle fatture, di regola comunque molto inferiore a quanto consegue illecitamente dell’utilizzatore.

Per tali considerazioni, la Corte ha concluso che nessun profitto, nel senso indicato dalla difesa, sarebbe scaturito in capo alla società anche nell’ipotesi in cui quest’ultima non fosse stata sottoposta ad amministrazione giudiziaria. Anzi, per i giudici di legittimità tale argomentazione difensiva è risultata addirittura controproducente perché sostanziale ammissione del fatto che il ricorrente avesse emesso le false fatture in nome e per conto di una società della quale non era più titolare perché ormai sottoposta ad amministrazione giudiziaria.