L’imprenditore deve giustificare la destinazione delle somme prelevate

Di Maria Francesca ARTUSI

La mancanza dei libri e delle scritture contabili può integrare alternativamente la bancarotta semplice ovvero la bancarotta fraudolenta documentale, a seconda dell’elemento soggettivo che ha mosso l’imprenditore o l’amministratore. In particolare, la mancanza della documentazione richiesta dovrà essere ricondotta all’ipotesi criminosa della bancarotta semplice, qualora sia assente o insufficiente l’accertamento in ordine allo scopo eventualmente propostosi dall’agente e in ordine all’oggettiva finalizzazione di tale carenza.
Così argomentando, la sentenza n. 13059 della Cassazione, depositata ieri, ha annullato con rinvio la condanna per bancarotta fraudolenta documentale (art. 216 comma 1 lett. b) del RD 267/42) relativamente a un caso di occultamento delle scritture contabili obbligatorie.

Tale condotta richiede, infatti, il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, che consiste nella fisica sottrazione delle scritture contabili alla disponibilità degli organi fallimentari, anche sotto forma della loro omessa tenuta. Essa costituisce una fattispecie autonoma e alternativa – in seno al medesimo art. 216 comma 1 lett. b) – rispetto alla fraudolenta tenuta di tali scritture, in quanto quest’ultima integra un’ipotesi dì reato a dolo generico, che presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi (cfr., tra le tante, Cass. n. 33114/2020).

Per affermare che la mera mancanza della documentazione integra il più grave reato di bancarotta fraudolenta, il giudice di merito è dunque chiamato ad accertare puntualmente, nelle proprie motivazioni, il presupposto soggettivo del dolo specifico.

La medesima pronuncia conferma, invece, la condanna per bancarotta patrimoniale (art. 216 comma 1 lett. a) del RD 267/42), conseguente al fatto che il curatore non ha trovato “nulla delle somme incassate nel corso degli anni”, nonostante gli incassi fossero effettivamente avvenuti.
Dalla ricostruzione della vicenda era, infatti, emerso che per vari anni erano sistematicamente uscite somme dall’impresa con assegni di importo pari (o quasi) all’incasso. D’altra parte – come si è detto sopra – le scritture contabili sono scomparse e con esse la possibilità di una precisa ricostruzione dei costi, nonché la possibilità di poter qualificare come utili le somme sottratte.

In proposito, la Cassazione afferma che integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione il fallito che utilizzi fondi dell’impresa, artificiosamente fatti figurare in contabilità come utili in realtà inesistenti, al fine di onorare debiti personali.

Inoltre, la prova della responsabilità, dal punto di vista oggettivo, si desume anche soltanto dalla dimostrazione di prelievi apparentemente ingiustificati dalle casse della società in stato di fallimento. Infatti, una volta accertato che l’imprenditore ha avuto nella sua disponibilità determinati beni, nel caso in cui egli non renda conto del loro mancato reperimento, né sappia giustificarne la destinazione per effettive necessità dell’impresa, si deve dedurre che gli stessi siano stati dolosamente distratti. Ciò in quanto il fallito ha l’obbligo giuridico di fornire dimostrazione della destinazione dei beni acquisiti al suo patrimonio (Cass. n. 3400/2005).

La Corte ritiene, dunque, di avallare quanto argomentato dai giudici di merito sul fatto che la prova della distrazione è già formata sulla base del rilievo dell’assenza di una positiva e comprovata giustificazione da parte dell’imprenditore circa la destinazione impressa ai prelievi effettuati dalle casse delle impresa.
Ciò non significa che sull’imputato è rovesciato l’onere della prova dell’accusa, bensì si costituisce l’onere di vincere la detta presunzione, comprovando la legittimità delle destinazioni impresse alle somme prelevate, secondo gli scopi della impresa, che in ogni caso vengono prima delle esigenze individuali dell’imprenditore; non essendo a tal fine sufficiente neppure la generica asserzione per cui gli stessi sarebbero stati assorbiti dai costi gestionali, ove non documentati né precisati nel loro dettagliato ammontare (e ciò, a maggior ragione, allorquando come nel caso di specie non siano state depositate le scritture contabili).

L’apparente inversione dell’onere della prova a carico dell’amministratore della società fallita, in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato, è, così, giustificato dalla responsabilità dell’imprenditore per la conservazione della garanzia patrimoniale verso i creditori e dall’obbligo di verità, penalmente sanzionato, gravante ex art. 87 del RD 267/42 sul fallito interpellato dal curatore circa la destinazione dei beni dell’impresa (Cass. n. 8290/2016).