Se il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato è costituito da denaro, la confisca delle somme deve essere qualificata come diretta

Di Maria Francesca ARTUSI

Sempre molto dibattuto è il tema dell’individuazione dell’oggetto del sequestro preventivo. Tali problematiche interpretative sono ancor più accentuate nell’ambito del diritto penale tributario e del diritto penale delle imprese come testimoniano le numerosissime pronunce della Cassazione sul punto.

Tra queste si annovera anche la pronuncia della Suprema Corte n. 7434 depositata ieri. Si trattava qui di un sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto del reato di indebita compensazione realizzato in seno ad una società a responsabilità limitata (art. 10-quater del DLgs. 74/2000).

Va ricordato che tale delitto punisce chiunque non versi le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’art. 17 del DLgs. 241/1997, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a 50.000 euro. Come per gli altri reati fiscali è prevista la confisca obbligatoria del profitto dell’evasione ai sensi dell’art. 12-bis del DLgs. 74/2000.
Nel risolvere la questione i giudici di legittimità richiamano espressamente alcune note affermazioni delle Sezioni Unite (Gubert e Lucci) in materia di confisca.

Innanzitutto, viene precisato che, laddove il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (Cass. SS.UU. n. 10561/2014).

Tale affermazione deriva, implicitamente, proprio dalla natura fungibile del bene. Questo infatti – come sottolineato dalla  Cassazione a Sezioni Unite n. 31617/2015 – si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ed è tale da perdere – per il fatto stesso di essere ormai divenuto una appartenenza del reo – qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica. Ciò rende superfluo accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita. Ciò che rileva – proseguono le Sezioni Unite – è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo.

La particolarità della sentenza in esame è di richiamare tali principi in senso “inverso” o “complementare”. Ove, infatti, si abbia la prova che tali somme non possano proprio in alcun modo derivare dal reato, le stesse neppure possono, evidentemente, rappresentare il risultato della mancata decurtazione del patrimonio quale conseguenza del mancato versamento delle imposte (ovvero, in altri termini del “risparmio di imposta” nel quale la giurisprudenza ha costantemente identificato il profitto dei reati tributari). E, dunque, non sono sottoponibili a sequestro, difettando in esse la caratteristica di profitto, pur sempre necessaria per potere procedere, in base alle definizioni e ai principi di carattere generale, ad un sequestro, come quello di specie, in via diretta.

Nella medesima direzione si colloca il principio – riaffermato nel caso di specie – secondo cui il sequestro preventivo finalizzato alla confisca in forma diretta del profitto derivante dal delitto di indebita compensazione, di cui all’art. 10-quater del DLgs. 74/2000 commesso dall’amministratore di una persona giuridica, può avere ad oggetto il saldo attivo presente sul conto corrente sociale al momento della consumazione del reato, coincidente con la presentazione dell’ultimo modello F24 relativo all’anno interessato, sul rilievo indiziario che le disponibilità monetarie si siano accresciute per il risparmio di spesa conseguito con il mancato versamento dell’imposta.

Resta, viceversa, onere della difesa allegare circostanze specifiche da cui desumere che, alla data di consumazione del reato, non vi fossero sul predetto conto somme liquide a disposizione del contribuente o che il denaro sequestrato sia frutto di accrediti con causa lecita effettuati successivamente a tale momento (Cass. n. 23040/2020).

Proprio quest’ultimo elemento manca a parere della Cassazione: la difesa, infatti, si è limitata ad affermare che le giacenze sul conto corrente della società sarebbero riconducibili ad una causa lecita, senza che però a tale affermazione corrisponda alcun elemento di riscontro evincibile dagli atti.