Le quote di ammortamento sui nuovi valori iscritti in bilancio sono ammesse in deduzione dal 2021

Di Luca AMBROSO e Gianluca ODETTO

La rivalutazione dei beni prevista dall’art. 110 del DL 104/2020 pone alcuni interrogativi in merito alla diversa decorrenza degli effetti prevista per gli ammortamenti e per le plusvalenze. Per le imprese con esercizio sociale coincidente con l’anno solare, infatti, i maggiori valori iscritti nel bilancio 2020 sono riconosciuti, ai fini della deducibilità degli ammortamenti, dal 2021, mentre per le plusvalenze il valore rivalutato rileva solo dal 1° gennaio 2024.

Si tratta di una situazione che diverge da quella che ha caratterizzato le ultime leggi di rivalutazione, nelle quali si tendeva a fare coincidere i due periodi di moratoria, o comunque a non rendere immediata la rilevanza fiscale degli ammortamenti.

Potrebbero non essere rare le situazioni in cui l’impresa prima rivaluta i beni, deducendo gli ammortamenti sui nuovi valori, e poi cede gli stessi prima del 2024. Questa seconda operazione, a norma dell’art. 3 commi 3 e 4 del DM 86/2002, determina:
– il calcolo delle plusvalenze fiscali partendo dal “costo del bene prima della rivalutazione”, con attribuzione alla società del credito d’imposta del 3% da detrarre dall’IRES (o da attribuire ai soci, per le società di persone);
– la sospensione delle rate residue, in caso di versamento rateale dell’imposta (in tal caso, il credito compete in modo corrispondente alle rate già pagate);
– la cessazione dello stato di sospensione della parte di riserva di rivalutazione riferita ai beni ceduti.

Qualche riflessione va però fatta sulle concrete modalità di calcolo delle plusvalenze. La materia è stata a suo tempo trattata dall’Agenzia delle Entrate nella circ. n. 57/2002 (§ 3.4), riferita alla legge di rivalutazione allora vigente, da effettuare nel bilancio 2001 e con efficacia dal 2003 per gli ammortamenti e dal 1° gennaio 2003 per le plusvalenze.

Ad avviso dell’Agenzia, la norma contenuta nell’art. 3 comma 3 del DM 86/2002 per cui le plusvalenze sono calcolate partendo dal “costo del bene prima della rivalutazione” va interpretata nel senso di assumere quale base di partenza il valore fiscale del bene nell’esercizio in cui avviene la cessione, senza tenere conto della rivalutazione eseguita.

L’allegato 1 della circolare poneva l’esempio di un bene con valore civilistico e fiscale di 50 nel 2001, rivalutato a 100 nel medesimo bilancio. Il bene era poi ammortizzato nel bilancio 2001 per 10 (l’impostazione contabile di allora era tale per cui l’ammortamento civilistico sui maggiori valori si effettuava già nel bilancio di rivalutazione), ma ai fini fiscali l’importo deducibile era pari a 5, in quanto calcolato sui vecchi valori.
Ne conseguiva, al 31 dicembre 2001 e dopo la rivalutazione, un valore residuo civilistico per 90 (100 – 10) e un valore residuo fiscale di 45 (50 – 5).

In base ai chiarimenti della circolare, se il bene veniva ceduto nel 2002 (anno di moratoria) a 90, a fronte di una plusvalenza civilistica pari a zero la plusvalenza fiscale era quantificata in 45 (90 – 45), e non in 40 (90 – 50, intendendo con questo ultimo termine il costo “ante rivalutazione”, come afferma in modo letterale il DM attuativo). In questo modo, ai fini fiscali si sarebbe ottenuto un risultato analogo a quello proprio dell’ipotesi in cui la rivalutazione non fosse mai avvenuta.

Nell’attuale contesto, riprendendo i medesimi dati della circ. n. 57/2002, il bene avrebbe, ad esempio, alla fine del 2022 un valore residuo, sia civilistico che fiscale, di 75 (dal valore rivalutato di 100 si detraggono una quota di ammortamento di 5 del 2020 – calcolata sul vecchio valore – e due quote di 10 del 2021 e del 2022).
Resta però il dubbio di come interpretare i passi del documento alla luce della normativa del DL 104/2020.

Se vale il principio per cui il costo da considerare per il calcolo delle plusvalenze nel periodo di moratoria è quello che si avrebbe avuto in assenza della rivalutazione (prendendo quindi a riferimento un piano di ammortamento teorico), l’importo da considerare a fine 2022 sarebbe pari a 35 (50, ridotto di tre quote di 5), e una vendita del bene nel 2023 al valore reale di 75 porterebbe ad una plusvalenza fiscale di 40: verrebbe, quindi, ripreso a tassazione il valore rivalutato di 50, al netto delle due quote di 5 dedotte sui maggiori valori nel 2021 e nel 2022.

Diversamente ragionando, se la base di calcolo fosse il valore fiscale effettivo di 75, ad una deduzione dei maggiori ammortamenti corrisponderebbe l’assenza di plusvalenze imponibili, con un beneficio oltretutto amplificato dallo svincolo del saldo attivo dal regime di sospensione d’imposta.

La prima soluzione parrebbe maggiormente rispondente al sistema normativo della rivalutazione, e dovrebbe quindi risolvere anche quelle situazioni in cui il bene rivalutato è completamente ammortizzato al 31 dicembre 2020: in questi casi, per le cessioni che intervengono nel triennio di sospensione degli effetti fiscali l’impostazione più equilibrata dovrebbe essere quella per cui gli ammortamenti sul nuovo valore contabile sono ammessi in deduzione nel 2021 e nel 2022, ma ai fini della determinazione della plusvalenza fiscale per una ipotetica cessione perfezionata nel 2023 occorrerebbe partire dal valore di zero.