Non è sufficiente un semplice calco del protocollo, ma bisogna adeguarlo alla reale organizzazione aziendale e alle peculiarità delle mansioni

Di Vincenzo PACILEO e Lorenzo Sergio VITALI

Quando l’art. 42 del DL 18/2020 ha stabilito che il contagio da SARS-CoV-2 in occasione di lavoro costituisce “infortunio”, ha cominciato a serpeggiare nel mondo delle imprese una forte preoccupazione. Si è pensato che ai danni economici derivanti dalla pandemia veniva ad aggiungersi un rischio penale (oltre che civile) a fronte di un fenomeno che neppure le Autorità riuscivano a controllare.

Timore al contempo eccessivo e fondato. Eccessivo, perché non esiste alcun automatismo tra infortunio del lavoratore da COVID-19 e responsabilità (civile o penale) del datore di lavoro, avendo in sé la norma una funzione prettamente assicurativa. Ma ciò nondimeno fondato, in quanto ben può sussistere quella responsabilità ove sia provato che il contagio è avvenuto per omessa adozione di idonee cautele di prevenzione.

In ogni caso, se mai l’art. 42 avesse voluto avere una funzione estensiva della responsabilità per questa tipologia di infortunio, non ve ne sarebbe stato bisogno, poiché essa (può) discende(re) direttamente dalla disciplina generale, essendo quello del contagio da COVID-19 un particolare rischio da agente biologico.

Per la verità, in un primo momento taluno ha dubitato dell’applicabilità del DLgs. 81/2008 ;argomentando che si tratterebbe di rischio estrinseco all’attività aziendale (salvo che, eventualmente, nell’ambito sanitario). In realtà, questa “illusione ottica” è stata presto dissipata sia per ragioni di ordine generale, non essendovi alcuna limitazione del genere nel testo unico della sicurezza sul lavoro (TUSL), sia perché in più occasioni i provvedimenti governativi dell’emergenza vi hanno fatto esplicito riferimento (senza dire dei protocolli condivisi del 24 aprile 2020).

Quali sono, dunque, gli obblighi datoriali derivanti dal rischio di contagio in occasione di lavoro?
Si possono sintetizzare come segue: aggiornamento del documento di valutazione dei rischi (quantomeno nella forma di procedure aggiuntive specifiche); informazione e formazione dei lavoratori; dotazione di idonei DPI; sorveglianza sanitaria.

In questo quadro generale si inseriscono anche le misure indicate nei protocolli condivisi, i quali da un punto di vista sistematico vanno a integrare il TUSL. Inoltre, unitamente al datore di lavoro vengono in considerazione anche le figure del RSPP e del medico competente, ciascuno per il proprio specifico ruolo.

Ne deriva che in linea di principio può sussistere una responsabilità, anche penale, nel caso che si possa dimostrare che il lavoratore si è contagiato nell’ambito della sua attività in quanto non sono stati previsti e/o implementati i presidi prevenzionistici volti a evitare il contagio. Una tale prova può essere particolarmente ardua per singoli casi di contagio di lavoratori di una certa azienda in ragione della caratteristica c.d. “ubiquitaria” del virus, tale per cui sarà ben difficile escludere che il lavoratore possa essersi contagiato al di fuori dell’ambito lavorativo. Diverso può essere il caso di un focolaio aziendale, che rende più probabile, ma non necessariamente in maniera decisiva, che il fenomeno sia sorto o si sia propagato nel contesto di lavoro.

Con l’art. 29-bis del DL 23/2020, introdotto in sede di conversione dalla L. 40/2020, si statuisce che l’obbligo dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, derivante dalla disposizione generale sulla sicurezza dei lavoratori di cui all’art. 2087 c.c., sono adempiuti mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso del 24 aprile 2020 e negli altri protocolli e linee guida di cui all’art. 1 comma 14 del DL 33/2020, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Dunque, se il datore di lavoro si attiene ai protocolli è esonerato da responsabilità ove il contagio si sia comunque prodotto.

Questa conclusione è senz’altro vera, ma non del tutto dirimente, nel senso che, da una parte, essa vale soltanto da quando i protocolli sono stati sottoscritti, per cui resta un periodo pandemico “scoperto”; dall’altra, che la compliance ad essi deve pur sempre essere valutata nella sua effettività dagli organi di controllo ed eventualmente in seconda battuta dall’Autorità giudiziaria.

In altri termini, non sarà sufficiente un puro e semplice calco del protocollo che non sia “tagliato” sulla reale organizzazione aziendale e sulla peculiarità delle mansioni dei singoli lavoratori, che potranno scontare rischi diversi di infettarsi.