La mancata applicazione di un contratto asseritamente «leader» può inibire anche il recupero dei benefici normativi e contributivi

Di Mario PAGANO

La natura di contratto “leader” e la rappresentatività sono ancora oggi sprovvisti di un’effettiva copertura normativa. Più di recente la giurisprudenza ha riacceso il dibattito sia sui criteri da utilizzare per attribuire a un’associazione sindacale o datoriale il carattere della maggiore rappresentatività comparativa, sia relativamente alla ripartizione dell’onere probatorio rispetto a tale requisito.
È proprio il caso della sentenza del Tribunale di Catania del 16 dicembre scorso, con la quale è stato accolto il ricorso avverso degli atti di accertamento emessi dall’INPS, non avendo l’Ente previdenziale assolto l’onere di provare la propria pretesa contributiva, fondata sulla mancata applicazione, da parte di una cooperativa, del contratto stipulato da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Anche in ragione di numerose sentenze, con la circolare n. 2/2020, lo stesso Ispettorato nazionale del lavoro aveva, ancora una volta, ribadito che il grado di rappresentatività delle organizzazioni sindacali viene individuato attraverso la valutazione complessiva dei seguenti elementi: consistenza numerica degli associati delle singole OO.SS.; ampiezza e diffusione delle strutture organizzative; partecipazione alla formazione e stipulazione dei contratti nazionali collettivi di lavoro; partecipazione alla trattazione delle controversie di lavoro, individuali plurime e collettive.

Più di recente si è sviluppato un diverso filone giurisprudenziale (cfr. Trib. Pavia 26 febbraio 2019 n. 80, Trib. Trani 18 novembre 2019 n. 2195) che attribuisce lo status di organizzazione comparativamente rappresentativa sulla scorta del decreto del Ministero del Lavoro del 15 luglio 2014 n. 14280, riguardante la Commissione consultiva per la salute e sicurezza sul lavoro, la quale individua, sulla base tanto di criteri giurisprudenziali quanto dei dati forniti dall’INPS in materia di deleghe e dal CNEL, circa la sua composizione consigliare, un elenco delle organizzazioni sindacali, risultate comparativamente più rappresentative, sia per la parte dei lavoratori che per la parte dei datori di lavoro. Allo stesso tempo viene attribuito valore alla presenza dell’organizzazione sindacale all’interno dei componenti del CNEL, ossia delle Confederazioni rappresentative e aventi diritto di avanzare le proprie proposte attraverso il CNEL, ciò in ragione di formale decisione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, con documento del 29 agosto 2017.

Prescindendo, in ogni caso, dagli elementi richiesti ai fini della rappresentatività, c’è, comunque, da chiedersi a chi spetta provare tali requisiti.

Di recente il Tribunale di Pavia, con la citata sentenza n. 80/2019, ha confermato un principio consolidato in giurisprudenza, secondo il quale “spetta all’INPS dimostrare la maggiore rappresentatività su base nazionale delle organizzazioni sindacali stipulanti il contratto collettivo, sulle cui retribuzioni l’Ente pretende di commisurare i contributi previdenziali (cfr. Cass. 23 aprile 1999 n. 4074 e 19 maggio 2003 n. 7842), non essendo la maggiore rappresentatività delle organizzazioni sindacali o datoriali un fatto notorio ex art. 115 c.p.c., e trattandosi, tra l’altro, di un dato che può anche variare nel corso del tempo”.

Punto di vista richiamato, peraltro, dallo stesso Tribunale di Catania, il quale, tuttavia, sembra spingersi anche oltre rispetto all’onere probatorio, investendo non unicamente il tema della pretesa contributiva che, calcolata su un diverso CCNL, determina un differenziale in aumento per il datore di lavoro. Il giudice, sul presupposto che le contestazioni mosse dall’INPS, con il verbale di accertamento impugnato, sono risultate carenti sul piano probatorio, ritiene per l’effetto priva di presupposto anche la caducazione dei benefici contributivi.

In tema di benefici non va dimenticato un fondamentale orientamento della Cassazione (da ultimo Cass. n. 15392/2017), secondo cui grava sull’impresa, che – in deroga all’ordinario obbligo contributivo – “invochi il diritto al riconoscimento di benefici (come gli sgravi ecc.), la prova dell’inesistenza dei fatti negativi e il relativo onere può essere soddisfatto con la dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario ovvero mediante presunzioni da cui possa desumersi il fatto negativo”.

Tuttavia, dal ragionamento del Tribunale di Catania, sembra potersi evincere, in maniera per certi versi innovativa, il principio in base al quale mettere in discussione la principale pretesa contributiva, derivante dalla mancata applicazione di un contratto asseritamente “leader”, ove tale pretesa rappresenta anche il presupposto ulteriore per recuperare i benefici normativi e contributivi che sono subordinati, ai sensi dell’art. 1 comma 1175 della L. 296/2006, anche al rispetto del CCNL leader, può sconfessare anche tale recupero. Ciò indipendentemente dall’onere probatorio in punto benefici che, di norma, spetterebbe al datore di lavoro.