La Suprema Corte ha fatto rientrare nel reato ex art. 612-bis c.p. la condotta di un amministratore delegato nei confronti di una dipendente

Di Maria Francesca ARTUSI

Con il DL 11/2009 è stato introdotto nel nostro ordinamento il reato di “atti persecutori”, meglio conosciuto come “stalking”. L’art. 612-bis c.p. oggi punisce chi, reiteratamente, minaccia o molesta un’altra persona in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 31273 depositata ieri, ha confermato la possibilità di ricomprendere in tale disposizione anche le condotte di c.d. “mobbing”.

Con tale pronuncia, infatti, viene confermata la decisione del Tribunale di applicare la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti dell’amministratore delegato di una società, in riferimento a condotte persecutorie plurime in danno di una delle dipendenti della società medesima. L’elaborazione giurisprudenziale giuslavoristica in tema di tutela delle condizioni di lavoro ha delineato i tratti caratterizzanti il mobbing lavorativo, che si configura ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti vessatori del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo (tra le altre, Cass. n. 12437/2018).

Ed è proprio siffatta finalità a svolgere una peculiare funzione selettiva, in quanto, ai fini della configurabilità di una ipotesi di mobbing, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di plurime condotte datoriali illegittime, ma è necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Cass. n. 10992/2020).
In tal senso, il mobbing può definirsi in termini di “mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro”.

La giurisprudenza ha, così, affermato che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia (artt. 571 e 572 c.p.), qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (Cass. n. 51591/2016).
Secondo la sentenza in commento, tale visione del fenomeno, tutta incentrata sulla tutela dell’integrità psicofisica della vittima, non esclude – ma, anzi, conferma – la riconducibilità dei fatti vessatori alla norma incriminatrice di cui al citato art. 612-bis c.p., ove ricorrano gli elementi costitutivi di siffatta fattispecie.

Il delitto di atti persecutori – che ha natura di reato abituale e di danno – è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso. Pertanto, ciò che rileva è la identificabilità di tali comportamenti quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione di uno degli eventi dannosi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, che condividono il medesimo nucleo essenziale, rappresentato dallo stato di prostrazione psicologica della vittima delle condotte persecutorie.

Ed è proprio questo nucleo essenziale a qualificare giuridicamente la condotta che può esplicarsi anche con modalità atipiche, in qualsivoglia ambito della vita, purché sia idonea a ledere il bene interesse tutelato, e dunque la libertà morale della persona offesa, all’esito della necessaria verifica causale.
In altri termini, il contesto entro il quale si situa la condotta persecutoria è del tutto irrilevante, quando la stessa abbia determinato un vulnus alla libera autodeterminazione della persona offesa, determinando uno degli eventi previsti dall’art. 612-bis c.p.

Ne consegue che nessuna obiezione sussiste, in astratto, alla riconduzione delle condotte di mobbing nel delitto di “atti persecutori”, laddove la “mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro”, elaborata dalla giurisprudenza civile come essenza del fenomeno, sia idonea a cagionare uno degli eventi delineati dalla norma incriminatrice.