Screening obbligati negli studi professionali per verificare cosa cambia alla fine del periodo transitorio

Di Gianluca ODETTO

Dal 1° gennaio 2021 il Regno Unito avrà, anche ai fini dell’imposizione sui redditi, lo status di Stato extracomunitario. Termina, infatti, il 31 dicembre 2020 il periodo di transizione in cui, a norma dell’art. 127 dell’accordo di recesso, continua ad applicarsi, salvo i casi espressamente indicati, il diritto dell’Unione, in primis rappresentato dalle direttive in materia fiscale.

Fa eccezione a questo scenario la sola direttiva 2010/24/Ue in materia di recupero dei crediti tributari, garantita dall’art. 100, par. 1, dell’accordo di recesso per ulteriori 5 anni dopo la fine del periodo di transizione (essa riguarda essenzialmente i crediti relativi ad importi divenuti esigibili prima della fine del periodo di transizione, nonché i crediti relativi a operazioni effettuate prima della fine del periodo di transizione, ma i cui importi sono divenuti esigibili dopo tale periodo).
A livello pratico, occorre valutare quali siano i principali cambiamenti in termini di imposizione nei rapporti con il Regno Unito.

Nelle Tabelle 1 e 2 sono riassunte, senza pretesa di esaustività, le principali disposizioni in cui l’ordinamento italiano riconosce benefici (o evita penalizzazioni) in virtù dell’appartenenza dello Stato di residenza del percipiente dei redditi di fonte italiana, o di localizzazione degli investimenti dei soggetti con residenza in Italia, all’Unione europea o allo Spazio economico europeo.

Alcune di queste norme sono diretta emanazione di direttive comunitarie (ad esempio, quelle che hanno ad oggetto l’esenzione per i dividendi, gli interessi e le royalties prevista dagli artt. 27-bis e 26-quater del DPR 600/73, attuativi delle direttive 2011/96/Ue e 2003/49/Ce); altre norme sono invece finalizzate a garantire il rispetto delle libertà fondamentali contenute nel Trattato di funzionamento (in non rari casi esse sono state emanate a seguito di procedure di infrazione nei confronti dell’Italia). Queste disposizioni vengono meno dal 2021 nei rapporti con il Regno Unito per cui, ad esempio, per i flussi reddituali infragruppo si passa dall’esenzione garantita dalle direttive ai benefici previsti dalla Convenzione con il Regno Unito: ad esempio, per le royalties infragruppo di fonte italiana si passa dall’esenzione alla ritenuta convenzionale dell’8%.

In altri casi, la Brexit produce effetti sui regimi opzionali: per fare un semplice esempio, un soggetto con residenza fiscale inglese poteva optare per il regime forfetario per gli autonomi producendo in Italia almeno il 75% del proprio reddito, mentre il sopravvenuto status di soggetto extracomunitario preclude il beneficio, ponendo tra l’altro il problema delle opzioni attualmente in essere (le quali, a rigore, dovrebbero decadere, fatto salvo un eventuale ricorso al principio della tutela dell’affidamento). Analoghe problematiche si ravvisano nel contesto delle opzioni per il consolidato fiscale.

Le Tabelle 3 e 4 evidenziano invece una serie di disposizioni che fanno riferimento allo status dell’altro Stato come Stato appartenente alla white list (o “collaborativo”, o ancora “che garantisce un adeguato scambio di informazioni”). In questi casi, il recesso del Regno Unito non produce effetti, continuando tale Stato a garantire un adeguato scambio di informazioni: così, per fare un semplice esempio, il residente britannico (persona fisica o società) che cede partecipazioni non qualificate non quotate in una società italiana continua ad essere esentato dall’obbligo di versamento dell’imposta sostitutiva del 26% sul capital gain anche senza fare ricorso alla Convenzione; analoga esenzione continua a valere per l’imposta sostitutiva sugli interessi delle obbligazioni dei grandi emittenti (banche e società quotate). Allo stesso modo, per i conti detenuti nel Regno Unito da residenti italiani si continuerà a non indicare nel quadro RW il “picco massimo” raggiunto nel periodo d’imposta.

Va ricordato, da ultimo, che in previsione del possibile scenario del recesso del Regno Unito in assenza di accordo con l’Unione europea, il legislatore italiano si era cautelato con il DL 22/2019, il cui art. 13 comma 1 stabiliva che, sino al termine del periodo transitorio, dovevano continuare ad essere applicate le disposizioni fiscali nazionali previste in funzione dell’appartenenza del Regno Unito all’Unione, “ivi incluse quelle connesse con l’esistenza di una direttiva UE”.
L’art. 2 comma 2 lettere m) ed l) dello stesso DL 22/2019 definiva, poi, il periodo transitorio quale “il periodo tra la data di recesso e il termine del diciottesimo mese successivo”, e la data di recesso quale “la data a decorrere dalla quale avrà effetto il recesso del Regno Unito (…) dall’Unione europea in assenza di un accordo ai sensi dell’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea”.

Era stato posto da più parti il problema della coesistenza di tale norma, che indicava nei rapporti con Londra un periodo di transizione per il mantenimento del diritto dell’Unione di 18 mesi, con quella contenuta nell’art. 126 dell’accordo di recesso, la quale invece contempla un periodo di transizione di soli 11 mesi (da febbraio a dicembre del 2020).
Il Ministero dell’Economia, con comunicato del 31 gennaio 2020, ha chiarito che le disposizioni del DL 22/2019 non trovano applicazione, in quanto esse erano destinate a disciplinare il caso della hard Brexit (recesso senza accordo), quando invece il recesso è stato regolamentato da un accordo. Il principio è poi stato confermato dall’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 156 del 28 maggio 2020.