A rilevare è il fatto che sia accertata la condotta illecita, al di là della richiesta effettuata dal curatore

Di Maurizio MEOLI

La gestione dei rapporti contrattuali e la direzione del personale dipendente sono attività rilevanti ai fini dell’individuazione della gestione di fatto di una società, con assunzione delle relative responsabilità, anche in caso di fallimento. Questo evento giustifica una richiesta di risarcimento dei danni quantificabili avendo riguardo alla colpevole dispersione degli elementi dell’attivo e al colpevole protrarsi di un’attività produttiva implicante l’assunzione di maggiori debiti della società, a nulla rilevando il fatto che tale importo sia ridotto a una minor somma, corrispondente alla differenza tra passivo e attivo fallimentare, solo in ragione del limite quantitativo della pretesa fatta valere in giudizio dal curatore.
Ad affermarlo è la Cassazione, nell’ordinanza n. 21730, depositata ieri.

Nel caso di specie, il curatore fallimentare di una srl dedita all’attività di vigilanza privata agiva, ex art. 146 del RD 267/1942, per ottenere, da quello che era considerato l’amministratore di fatto della società, il risarcimento di un danno che, in assenza di scritture contabili, era individuato nella somma complessiva di circa 1.500.000 euro, corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare.

Contro la condanna in appello, il supposto amministratore di fatto ricorreva per Cassazione eccependo, da un lato, la mancanza di prova di tale qualità, non avendo i giudici d’appello verificato lo svolgimento di funzioni gestorie con carattere di sistematicità e di completezza, e, dall’altro, la non corretta applicazione, quanto alla determinazione del danno, dei principi enunciati dalle Sezioni Unite n. 9100/2015. Secondo questa decisione, infatti, nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile deve essere provata avendo riguardo a specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti e il danno di cui si pretende il risarcimento.

Nelle predette azioni, inoltre, la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare (c.d. metodo del deficit fallimentare), potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda a una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.

L’imputazione di un danno pari all’intero deficit patrimoniale della società fallita può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che proprio in ragione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza.

La Suprema Corte reputa i due motivi infondati.
Quanto al primo, osserva come – pur essendo necessario, ai fini del riconoscimento della qualità di amministratore di fatto, che l’ingerenza nella gestione della società attraverso le direttive e il condizionamento delle scelte operative non si esaurisca nel compimento di atti eterogenei e occasionali, ma presenti i caratteri di sistematicità e completezza (cfr. Cass. n. 4045/2016) – non sia possibile ritenere che la pronuncia di merito impugnata si sia discostata da tale principio. A fondamento di essa, infatti, risultava lo svolgimento di un’attività non episodica, ma continuativa, relativa a due aspetti fondamentali dell’amministrazione societaria: la gestione dei rapporti contrattuali in essere e la direzione del personale dipendente.

Quanto al secondo motivo del ricorso, i giudici di legittimità osservano come, nella specie, il pregiudizio patrimoniale sia stato quantificato dai giudici d’appello avendo riguardo a due specifiche situazioni: il depauperamento del patrimonio societario riguardo a taluni crediti che, pur dovendo ritenersi incassati, non risultavano impiegati a beneficio della società (anzi, da un parallelo processo penale, emergeva come gli stessi fossero stati oggetto di distrazione); il debito accumulato per le retribuzioni dovute ai lavoratori della fallita, che, a fronte della revoca dell’autorizzazione allo svolgimento dell’attività di vigilanza e della perdita del capitale sociale, avrebbe potuto essere evitato tramite la messa in liquidazione e lo scioglimento della società (ovvero con la risoluzione dei rapporti con i dipendenti).

Rispetto a tale determinazione, che complessivamente risultava di importo superiore al deficit fallimentare, la liquidazione per una somma pari al deficit stesso derivava esclusivamente dal fatto che questo era quanto domandato dal curatore nella pretesa fatta valere in giudizio. Ma tale evenienza, sottolinea la Suprema Corte, non vale a escludere la correttezza dell’operato dei giudici d’appello.