Con il DL 104/2020 diventa complesso individuare caso per caso il termine della moratoria dei licenziamenti

Di Luca NEGRINI

L’art. 14 del DL 104/2020 (c.d. decreto “Agosto”), salvo alcune specifiche eccezioni, ha mantenuto fermo il divieto di licenziamento per ragioni di carattere economico, introdotto dall’art. 46 del DL 18/2020 inizialmente per sessanta giorni, poi diventati cinque mesi dopo le modifiche introdotte dal DL 34/2020.

La nuova disposizione, però, non individua più un termine certo, uguale per tutti i datori di lavoro, come era avvenuto con il precedente art. 46, perché la scadenza del divieto viene oggi esplicitamente ancorata alla fruizione degli ammortizzatori sociali e dell’esonero contributivo previsti nel medesimo decreto. In particolare, secondo l’art. 14, non potranno procedere ad un licenziamento collettivo o ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo quei “datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19 di cui all’articolo 1 ovvero dell’esonero del versamento dei contributi previdenziali di cui all’articolo 3 del presente decreto”.

Vengono così a crearsi diverse categorie di datori di lavoro, per i quali il divieto opera secondo scadenze variabili. Il caso più semplice è sicuramente quello del datore di lavoro che utilizzi fin dall’inizio e senza soluzione di continuità le 18 settimane di cassa previste dall’art. 1, fruibili dal 13 luglio al 31 dicembre, esaurendole così al 15 novembre: in questo caso, si potrà procedere con un licenziamento per motivi economici a partire dal 16 novembre 2020.

Più complessi sono gli altri casi ed in particolare quello relativo alle imprese che beneficino dell’esonero contributivo previsto dall’art. 3, che riconosce ai datori di lavoro che non richiedano le integrazioni salariali previste dall’art. 1 un esonero contributivo fruibile entro il 31 dicembre, nel limite del doppio delle ore di integrazione salariale utilizzate nei mesi di maggio e giugno, fino ad un massimo di quattro mesi. Secondo i commi 2 e 3 dell’art. 3 a questi datori di lavoro si applica il divieto di licenziamento previsto dall’art. 14 e l’eventuale violazione del divieto comporta la revoca dell’esonero contributivo, con efficacia retroattiva, e l’impossibilità di presentare domanda di integrazione salariale ai sensi dell’art. 1.

Quest’ultima disposizione sembra escludere che la scelta di fruire dell’esonero contributivo rappresenti un’alternativa definitiva al ricorso alla cassa integrazione, perché altrimenti non si potrebbe porre il caso di un datore di lavoro che abbia beneficiato dell’esonero e poi possa presentare una domanda di integrazione salariale. In altre parole, la richiesta di esonero contributivo precluderebbe la fruizione degli ammortizzatori sociali solo per il periodo in cui si beneficia dell’esonero, ma una volta terminato questo periodo si potrebbe procedere con una richiesta di cassa, sempre ammesso di non aver effettuato dei licenziamenti in violazione del divieto.

Se così è, questa conclusione avrebbe dei riflessi anche in relazione alla scadenza della moratoria sui licenziamenti, che non verrebbe in alcun modo anticipata per i datori di lavoro che fruiscono dell’esonero contributivo dell’art. 3, come ipotizzato in alcuni dei primi commenti al nuovo decreto.

Infatti, se dopo aver terminato di beneficiare di tale esonero contributivo è ancora possibile presentare una domanda di cassa integrazione per COVID-19, allora di fatto anche per tali datori di lavoro continuerebbe a valere il divieto di licenziamento, sulla base della prima parte del comma 1 dell’art. 14, in quanto avrebbero ancora la possibilità di fruire dei trattamenti di integrazione salariale previsti dall’art. 1 fino al 31 dicembre.

Di conseguenza, per questi datori di lavoro, così come per tutti quelli che non utilizzino in tutto o in parte le 18 settimane di cassa previste dall’art. 1, il divieto di licenziamento verrebbe meno solo con la fine del 2020, termine ultimo entro cui possono essere utilizzati gli ammortizzatori sociali previsti dalla legislazione di emergenza. Pertanto, un’anticipazione di tale termine è possibile solo per quei datori di lavoro che prima della fine dell’anno abbiano esaurito questi ammortizzatori sociali.

Come si può vedere, è un quadro tutt’altro che chiaro e privo di incertezze, di cui si poteva senz’altro fare a meno. Se la scelta del legislatore era quella di prorogare ulteriormente il divieto di licenziamento, tanto valeva indicare una data certa ed uguale per tutti, come si era fatto nelle precedenti occasioni, senza creare ulteriori dubbi interpretativi rispetto ad una questione particolarmente delicata. Infatti, lo ricordiamo, la violazione del divieto comporta la nullità del licenziamento, a prescindere dalle dimensioni aziendali, per cui è sicuramente opportuno agire con prudenza.