La durata deve essere determinata in concreto in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p. e non rapportata alla durata della pena principale inflitta
La commissione di un reato tributario comporta, oltre alla pena principale della reclusione prevista per ciascuna fattispecie, anche l’applicazione di una o più pene accessorie, disciplinate dall’art. 12 del DLgs. 74/2000.
Si tratta di sanzioni particolarmente invasive che riguardano l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a tre anni; l’incapacità di contrattare con la Pubblica Amministrazione per un periodo non inferiore a un anno e non superiore a tre anni; l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per un periodo non inferiore a un anno e non superiore a cinque anni; l’interdizione perpetua dall’ufficio di componente di commissione tributaria; la pubblicazione della sentenza.
Nel caso di dichiarazioni fraudolente o di emissione di fatture false è prevista anche l’interdizione dai pubblici uffici per un periodo non inferiore a un anno e non superiore a tre anni (art. 12 comma 2).
Nella sentenza n. 15556, depositata ieri, la Corte di Cassazione si trova di fronte a una divergenza interpretativa rispetto alla fissazione della durata di tali pene.
Secondo un primo indirizzo, queste sanzioni, pur trovando applicazione in via automatica in caso di condanna per uno dei reati previsti dal DLgs. 74/2000, sono tuttavia rimesse, nella fissazione della relativa durata, alla piena discrezionalità del giudice che le determina in concreto facendo ricorso ai criteri dettati dall’art. 133 c.p. nell’ambito dell’intervallo temporale indicato dalla stessa norma (Cass. nn. 4916/2017 e 35729/2013).
In senso contrario altre sentenze affermano, sulla scorta della pronuncia a Sezioni Unite n. 6240/2015, che trovi in tal caso applicazione l’art. 37 c.p. che impone al giudice di uniformare la durata delle pena accessorie a quella della pena principale inflitta in concreto (Cass. nn. 8041/2018 e 1963/2019).
Ciò in quanto si è ritenuto che tale art. 37 c.p. detti un criterio generale in materia di pene accessorie nel senso che la loro durata – qualora non espressamente determinata – sia legata a quella della pena principale inflitta, come confermato dalla regola sussidiaria stabilita dal secondo periodo della norma in questione, in forza della quale la durata della pena accessoria in nessun caso può superare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di essa.
La pronuncia in esame ritiene che tale contrasto si dissolva alla luce della recente pronuncia delle Sezioni Unite che, seppur riferita al reato di bancarotta fraudolenta (art. 216 ultimo comma del RD 267/1942), ha affermato che la durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo e uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta (Cass. SS.UU n. 28910/2019).
La stessa Corte Costituzionale n. 222/2018 aveva, infatti, negato che la durata unica e fissa delle pene accessorie previste per i reati di bancarotta fosse compatibile con i principi costituzionali di proporzionalità e di necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio.
Le citate Sezioni Unite hanno, poi, definitivamente scartato l’opzione interpretativa che impone di ancorare la durata delle sanzioni accessorie all’entità della pena principale della reclusione, ritenendo che si tratti di un criterio – quello enunciato dall’art. 37 c.p. – soltanto residuale, cui fare ricorso nei casi in cui la legge in astratto sia priva di qualsiasi indicazione sul profilo temporale che circoscriva e guidi l’esercizio del potere dosimetrico del giudice.
Tornando al caso di specie affrontato dalla sentenza in commento, i giudici di legittimità ritengono, così, che la mancata pronuncia da parte del tribunale di merito riguardo alle pene accessorie imponga l’annullamento della sentenza con rinvio per una nuova determinazione delle sanzioni.
Sul tema delle pene accessorie per i reati tributari appare utile una considerazione legata alla recente riforma operata dal DL 124/2019 (seppur non oggetto della pronuncia n. 15556). Il comma 2 dell’art. 12 escludeva l’interdizione dai pubblici uffici nel caso di utilizzo o emissione di fatture false entro determinati limiti quantitativi, richiamando gli abrogati commi 3 degli artt. 2 e 8 del DLgs. 74/2000 (DL 138/2011). Una differenziazione della pena sulla base degli elementi passivi fittizi e sull’importo fatturato è stata oggi ripristinata, rispettivamente, nei commi 2-bis dei citati artt. 2 e 8. Ci si domanda, pertanto, se sia ora possibile leggere il comma 2 dell’art. 12, in favor rei, riferito alle nuove soglie di pena.