Incertezze sulla proroga di 6 mesi degli adempimenti in scadenza fra il 23 febbraio 2020 e il 31 dicembre 2021 dei concordati preventivi omologati
Il lockdown comporta l’esigenza diffusa di rivedere i piani aziendali. Spesso le prospettive post COVID deprimono le attese di flussi finanziari a servizio del debito, evidenziando l’utilità della moratoria e delle garanzie pubbliche della disciplina emergenziale. Queste ultime a loro volta impongono di non remunerare i soci almeno per un anno, rendendo più difficile raccogliere capitale di rischio fresco e più debole la struttura patrimoniale delle imprese, inevitabilmente sbilanciata verso il capitale di debito.
Questa spirale è particolarmente pericolosa per le imprese che stanno eseguendo un progetto di ristrutturazione/risanamento post omologa di un concordato preventivo. In tale fase i debiti bancari sono generalmente classificati come forborne non performing e quindi non possono neppure godere della moratoria o dello riscadenziamento secondo linee di credito che godono delle garanzie pubbliche.
Le banche hanno iniziato a ricevere segnalazioni e richieste al riguardo e non pare che possiedano un quadro definito di come collaborare per evitare l’insolvenza delle imprese post omologa concordataria, evento che vanificherebbe gli sforzi di tutti gli stakeholders, comprese le banche stesse, che vedrebbero crescere le NPE e diminuirne le prospettive di recupero.
A questa esigenza la normativa emergenziale risponde solo parzialmente. L’art. 9 comma 1 del DL 23/2020 ha disposto la proroga ex lege di 6 mesi di tutti gli adempimenti in scadenza fra il 23 febbraio 2020 e il 31 dicembre 2021 dei concordati preventivi omologati. Si tratta di una condizione necessaria ma non sempre sufficiente per garantire il rispetto del piano, specie nei settori in cui la ripresa degli affari sarà più lenta ed incerta.
Peraltro, gli effetti concreti della proroga non appaiono chiari. Da un lato essa pare efficace ex lege, anche in assenza di richiesta dei debitori. Dall’altro sembra dubbio che la disposizione modifichi automaticamente i termini degli impegni assunti da terzi (ad esempio l’esecuzione di un preliminare di acquisto di un asset non strategico a beneficio del rimborso del debito concordatario) o della durata di contratti di finanziamento (si pensi a un leasing stipulato prima del concordato che scade nel 2021). In tali ipotesi si renderà necessario probabilmente assumere nuovi accordi fra le parti che tengano conto del mutato quadro, anche normativo.
Lo slittamento di 6 mesi inoltre non impedisce che venga chiesta la risoluzione del concordato per inadempimento. La Cassazione infatti ha sancito (cfr. Cass. nn. 7942/2010, 13446/2011 e 14601/2019) che quando il concordato non è (più) eseguibile, i creditori hanno diritto di chiederne la risoluzione anche se non vi sono ancora stati inadempimenti. Non solo: il giudizio in merito alla risoluzione del concordato non è influenzato dalla causa del disattendimento del piano, potendo essa essere dichiarata anche nei casi di inadempimento per impossibilità sopravvenuta (Cass. n. 18737/2018).
Il problema si genera (anche) perché la legge fallimentare pare non consentire la modifica del piano dopo l’omologa, ma solo (art. 172 comma 2 del RD 267/42) fino a quindici giorni prima dell’adunanza dei creditori (non così, invece per il sovraindebitamento dei non fallibili, ex art. 13 comma 4-ter della L. 3/2012).
Le disposizioni in merito all’esecuzione del concordato di cui all’art. 185 comma 1 del RD 267/42 oltre a non fare cenno alla modificabilità del piano, forniscono strumenti che non appaiono utili al caso in esame. È evidente infatti che le prerogative di vigilanza e di segnalazione di inadempimenti da parte del commissario, l’obbligo del debitore rispetto ad ogni atto necessario ad eseguire il concordato, l’attribuzione al commissario dei poteri per l’esecuzione del concordato e la sostituzione dell’organo amministrativo del debitore con un amministratore giudiziario non paiono utili a rimediare nel caso in cui l’impossibilità di eseguire il piano (ancor prima di un conclamato inadempimento) derivi da un evento esogeno, quale la recessione generata dalla pandemia.
Nella cornice di regole sopra descritta appare oggettivamente difficile per banche e imprese lavorare per raggiungere gli obiettivi convergenti.
Va peraltro ricordato che, come evidenziato da autorevole dottrina assume rilevo il principio di cui all’art. 3 comma 6-bis del DL 6/2020 in base al quale “Il rispetto delle misure di contenimento” … “è sempre valutato ai fini dell’esclusione ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c. della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze e penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
Questa disposizione potrebbe essere fatta valere per consentire al giudice di intervenire caso per caso per disciplinare la soluzione da individuare in ipotesi di inadempimento del piano, ma tale intervento sarebbe pur sempre conseguenza di una domanda di revoca del concordato. Dal punto di vista operativo pare una soluzione insidiosa e attuabile in tempi troppo lunghi rispetto a quelli imposti dalle crisi di liquidità.