La Cassazione conferma la propria giurisprudenza ma non analizza gli effetti dei “quick fixes”

Di Andrea BONARIA e Fabio Tullio COALOA

Con una serie di recenti sentenze pubblicate a distanza ravvicinata (Cass. nn. 3589/20204662/2020 e 4398/2020), la Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema dell’iscrizione al VIES dell’acquirente Ue, confermandone la rilevanza solo formale, nel caso di contestazione a carico del fornitore circa l’applicazione del regime IVA di non imponibilità sulle cessioni intracomunitarie di cui all’art. 41 del DL 331/93.

In particolare, per quanto riguarda le decisioni nn. 4662/2020 e 4398/2020 le fattispecie sono accomunate dal fatto che l’Amministrazione sosteneva l’esclusione dalla non imponibilità focalizzandosi sulla partita IVA del cessionario Ue, invalida o cessata, quantunque nel corso di ciascuna causa le ricorrenti avessero allegato e dimostrato l’effettività delle cessioni.

Diversa, invece, la vicenda decisa nella pronuncia n. 3589/2020, laddove l’assenza dei controlli sul VIES in merito alla partita IVA del cessionario Ue si inseriva in un contesto di partecipazione del cedente ad una frode, circostanza che dunque induceva la ricorrente Agenzia a denegare la non imponibilità sulle cessioni. Si evince da detta sentenza che la difesa del contribuente faceva perno sui principi che governano la ripartizione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c.: le cessioni contestate venivano provate a mezzo dichiarazione della stessa contribuente avente ad oggetto il compimento delle cessioni intracomunitarie e sulla corrispondente assenza di controprova da parte dell’Amministrazione.

Tanto premesso, va osservato che in tutte e tre le sentenze la Cassazione ha ribadito la rilevanza esclusivamente formale dell’iscrizione al VIES del cessionario Ue ai fini della disapplicazione della non imponibilità IVA ai fini dell’art. 41 del DL 331/1993.
Vale la pena dirigere l’attenzione soprattutto sulla Cassazione n. 4662/2020 per l’adeguata motivazione sui profili di diritto Ue: innanzitutto, sono stati sinteticamente ricordati i presupposti della cessione intracomunitaria secondo l’impianto della Direttiva IVA, ovverosia che il potere di disporre dei beni come proprietario sia trasmesso all’acquirente e che vi sia prova riguardo al fatto che gli stessi siano spediti o trasportati al di fuori del Paese del cedente (C-563/12), addirittura senza che assuma rilievo a tal proposito l’identificazione dell’effettivo acquirente nella persona indicata in fattura (C-653/18).

Di qui, la motivazione si articola sul tema chiave del principio di proporzionalità, che sarebbe illegittimamente violato qualora una normativa nazionale subordinasse essenzialmente il diritto alla non imponibilità al rispetto di obblighi formali, senza che vengano riscontrati quelli sostanziali dell’operazione (C-495/17), a patto, ovviamente, che la violazione di un requisito formale non abbia come effetto l’impedimento della prova certa in ordine ai requisiti sostanziali (C-275/18).

Alla luce di tale cornice, va rilevato che sia la Cassazione n. 4662/2020 che la n. 4398/2020 hanno rigettato la tesi dell’Erario, dando continuità all’orientamento della Suprema Corte secondo cui “la procedura di attribuzione del codice identificativo del cessionario […] non può determinare, ove mancante, il venir meno della possibilità di inquadrare la cessione nell’ambito di quelle intracomunitarie, allorché l’operatore provi in modo rigoroso tutti i requisiti sostanziali della normativa di settore” (Cass. n. 17254/2014), con la conseguenza che la mera omessa o errata comunicazione della partita IVA da parte del soggetto passivo costituisce violazione meramente formale che non incide sul regime di non imponibilità, salvo che “sussistano seri indizi che lascino supporre l’esistenza di una frode” (Cass. n. 25651/2018).

Ora, pare sia stato proprio tale ultimo profilo ad aver indotto la Cassazione n. 3589/2020 ad accogliere, invece, la tesi erariale, senza tuttavia contraddizioni rispetto alle altre sentenze in commento. Per l’appunto, argomentando dalla Cassazione n. 15871/2016 – pure ricordata in senso, però, favorevole al contribuente nella Cassazione n. 4398/2020 – la Suprema Corte ha affermato che è sempre onere del contribuente provare la sussistenza dei presupposti di fatto che giustificano la deroga al normale regime impositivo: sotto questo profilo, non è sufficiente la dichiarazione della società cedente riguardo all’effettiva realizzazione della cessione.

Da un punto di vista domestico le citate sentenze sono condivisibili allo stato attuale, ma occorre meditare sulla portata del nuovo art. 138 della Direttiva IVA, come modificato dal c.d. pacchetto “quick fixes”, che prevede la validità sostanziale dell’iscrizione al VIES, accanto agli altri presupposti delle cessioni intracomunitarie: tale novella non è ancora stata recepita, determinando, peraltro, la recente apertura della procedura d’infrazione 2020/0070.