Occorre giustificare al curatore il mancato rinvenimento in sede fallimentare

Di Maurizio MEOLI

La Cassazione, nella sentenza n. 391/2020, ricapitola i profili essenziali della fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale di cui agli artt. 216 comma 1 n. 1 e 223 comma 1 del RD 267/1942, che punisce con la reclusione da tre a dieci anni, in caso di fallimento, l’imprenditore o l’amministratore di società che abbiano distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i beni dell’impresa o della società.

In generale, quindi, il “distacco” del bene dal patrimonio dell’impresa fallita, in cui si concretizza l’elemento oggettivo del reato in questione, può realizzarsi in qualsiasi forma e con qualsiasi modalità, non avendo rilevanza su di esso la natura dell’atto negoziale con cui tale distacco si compie, né la possibilità di recuperare il bene attraverso l’esercizio delle azioni riconosciute in capo agli organi delle procedure concorsuali.

Rispetto a tale precisazione si tende ad affermare che la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell’imprenditore o dell’amministratore di società, della destinazione dei beni suddetti (cfr. Cass., tra le altre, nn. 23893/201911095/2014 e 22894/2013).

Tale indirizzo si fonda sulla considerazione che, nel nostro ordinamento, l’imprenditore assume una posizione di garanzia nei confronti dei creditori, i quali confidano nel patrimonio dell’impresa per l’adempimento delle obbligazioni sociali. Ne consegue la diretta responsabilità dell’imprenditore/amministratore, quale gestore di tale patrimonio, per la sua conservazione ai fini dell’integrità della garanzia. La perdita ingiustificata del patrimonio o la elisione della sua consistenza lede le aspettative dei creditori ed integra l’evento giuridico contemplato dalla fattispecie della bancarotta fraudolenta in questione.

Sono considerazioni che giustificano quella che risulta essere una solo apparente inversione dell’onere della prova in capo al fallito nel momento in cui non siano rinvenuti da parte della procedura beni dell’impresa o della società e manchino giustificazioni al riguardo; nel senso che si fa gravare sull’imprenditore/amministratore il dovere di dare conto di spese, perdite od oneri compatibili con il fisiologico andamento della gestione imprenditoriale.

Nel caso di specie, infatti, anche in ragione dell’obbligo di verità gravante sul fallito ai sensi dell’art. 87 comma 3 del RD 267/1942 con riferimento alla destinazione di beni di impresa al momento in cui viene interpellato da parte del curatore, ci si trova di fronte ad una legittima sollecitazione affinché il diretto interessato dia adeguata dimostrazione, in quanto gestore dell’impresa, della destinazione dei beni o del loro ricavato.

Si tratta, peraltro, di una richiesta rivolta al diretto interessato alla dimostrazione della concreta destinazione dei beni o del loro ricavato, sollecitando una risposta che (presumibilmente) soltanto lui – che oltre che il responsabile è l’artefice della gestione – può rendere.

Sotto il profilo soggettivo, poi, la bancarotta fraudolenta patrimoniale è integrata dal dolo generico. Pertanto, è sufficiente che la condotta di colui che pone in essere o concorre nell’attività distrattiva sia caratterizzata dalla consapevolezza che le operazioni che si compiono sul patrimonio sociale siano idonee a cagionare un danno ai creditori, senza che sia necessaria l’intenzione di causarlo. Non occorre la consapevolezza del dissesto o la sua prevedibilità in concreto, quanto la rappresentazione del pericolo che la condotta costituisce per la conservazione della garanzia patrimoniale e per la conseguente tutela degli interessi creditori.

Si tratta di una soluzione coerente con la natura di reato di pericolo della bancarotta patrimoniale rispetto alla quale si è altresì ripetutamente precisato come il dolo possa essere diretto, ma anche indiretto o eventuale, quando il soggetto agisca anche a costo (ovvero a rischio) di subire una perdita altamente probabile se non certa (cfr. Cass. nn. 42568/2018 e 14783/2018).

Rispetto a tutto ciò, infine, la circostanza attenuante di cui all’art. 219 comma 3 del RD 267/1942, che riduce le pene fino al terzo quando sia cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuità, è configurabile solo quando il danno arrecato ai creditori collettivamente considerati sia particolarmente tenue o del tutto assente, in ragione del valore complessivo dei beni che sono stati sottratti all’esecuzione concorsuale; nel senso che il danno deve essere posto in relazione alla diminuzione non percentuale, ma globale che il comportamento del fallito ha provocato alla massa attiva (cfr. Cass. n. 13285/2013).

Nel caso di specie, quindi, è considerata corretta la decisione di merito che – con riferimento a una ditta individuale – ha ritenuto che la sottrazione alla garanzia dei creditori dei veicoli posseduti dall’impresa, funzionanti e circolanti, avesse prodotto un danno non qualificabile come di speciale tenuità in ragione della consistente incidenza della globale diminuzione del patrimonio disponibile sulle operazioni di riparto.