Non vi è sussidiarietà o concorso apparente tra l’art. 19 del DLgs. 231/2001 e le norme del codice penale sulla stessa misura per gli autori del reato
Con la sentenza n. 1676 depositata ieri, la Cassazione ripercorre i criteri distintivi tra la confisca per equivalente per gli illeciti amministrativi dell’ente e la stessa misura ablativa a carico delle persone fisiche responsabili del “reato presupposto”.
Nel caso di specie, il provvedimento impugnato riguardava il sequestro preventivo nei confronti di una società e dei suoi amministratori, in forma diretta e per equivalente, del profitto del reato di malversazione (art. 316-bis c.p.) contestato alle persone fisiche in relazione a un contratto di finanziamento agevolato stipulato dalla società, questa a sua volta inquisita per l’illecito amministrativo di cui all’art. 24 del DLgs. n. 231/2001, per non avere destinato le somme erogate alla realizzazione degli scopi prescritti.
In via di premessa, la Corte richiama sul punto l’autorevole giurisprudenza (Cass. SS.UU. n. 26654/2008) per la quale la confisca per equivalente ex art. 19 del DLgs. n. 231/2001 ha natura di sanzione principale e autonoma, senza rapporto di sussidiarietà o di concorso apparente tra la detta disposizione e le norme del codice penale che prevedono la stessa misura ablativa a carico degli autori del reato, fermo restando che l’espropriazione non potrà, in ogni caso, eccedere nel quantum l’entità complessiva del profitto. La responsabilità della persona giuridica è, infatti, aggiuntiva e non sostitutiva di quella delle persone fisiche che resta regolata dal diritto penale comune. L’esecuzione del sequestro di valore presuppone quindi che non sia stato possibile far luogo previamente – ex art. 322-ter c.p. – alla confisca diretta di quanto costituisce il profitto o il prezzo del reato per cui si procede.
Nel caso di specie, la Corte riconosce che si era operato seguendo i detti criteri: con il provvedimento di vincolo si era dapprima disposto il sequestro preventivo in forma diretta del profitto del reato contestato, in misura specificata, da eseguirsi sulle somme portate dal conto corrente riconducibile alla società, prevedendosi solo in caso di incapienza – poi in concreto accertata – il sequestro per equivalente dei beni rinvenuti nella disponibilità degli indagati per un valore corrispondente al profitto.
Riguardo alla necessaria determinazione della misura del profitto vincolabile, la Corte, pur dando atto della complessità del tema soprattutto in contesti di criminalità economica connessi ad attività lecite di impresa, richiama l’acquisita distinzione tra “reati-contratto” e “reati in contratto” (Cass. n. 26654/2008). Nel “reato contratto” vi è immedesimazione del reato con il negozio giuridico e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità, con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca.
Se invece il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va a incidere solo sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale (c.d. “reato in contratto”), è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché lecito e valido inter partes è il contratto (eventualmente solo annullabile), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente.
Nel caso di specie, il contratto di finanziamento agevolato sottoscritto dalla società risultava immune da illiceità giacché il momento di rilevanza penale del fatto si era concretizzato con la mancata destinazione di quanto ricevuto alle finalità per cui vi era stata l’erogazione. Non poteva così sostenersi – come addotto dai ricorrenti – che entrato il finanziamento nel patrimonio dell’ente prima della consumazione del reato, trattandosi in ogni caso di un accrescimento patrimoniale transeunte per via dell’obbligo di restituzione, maggiorato di un tasso di interesse ancorché agevolato, di esso non si sarebbe dovuto tener conto per la determinazione del profitto vincolabile. Infatti, per la Cassazione, se il profitto consiste nel vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato, inteso come “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale” (Cass. n. 26654/2008), alla realizzazione del fatto penalmente sanzionato, quanto ricevuto con un preciso vincolo di destinazione è un non consentito accrescimento patrimoniale, senza che abbia rilievo in senso contrario l’obbligo di restituzione a carico dell’ente.
D’altronde, come ricorda la Corte, la ratio della confisca per equivalente è quella di evitare che l’illecito penale consenta l’acquisizione di un qualsivoglia beneficio economico in capo al reo, differenziando (“reato in contratto”), nel complessivo ambito negoziale, parti lecite connesse a prestazioni regolarmente eseguite dall’agente e perciò risoltesi in un utile per la controparte. Ne consegue che l’erogazione è fine a sé stessa, per essere stata frustrata la causale posta a base del concesso finanziamento, risolvendosi per ciò solo in un profitto, immediato e concreto, per il beneficiario del finanziamento medesimo e in un correlativo danno per il soggetto erogante, a prescindere dal mero diritto di credito legato all’obbligo di restituzione futura.