L’omessa valutazione del rischio e la mancanza di informazione e formazione hanno consentito il consolidarsi di una prassi pericolosa

Di Stefano COMELLINI

Nel “sistema 231”, la compatibilità tra i criteri di imputazione oggettiva del reato all’ente, dati dall’interesse e dal vantaggio (art. 5 del DLgs. n. 231/2001), e i delitti colposi per violazione delle norme di sicurezza deve ritenersi ormai ampiamente acquisita dalla giurisprudenza di legittimità.

A fronte di una responsabilità degli enti strutturata sulla criminalità dolosa dell’impresa, l’introduzione nel DLgs. 231/2001 dei reati presupposto dell’omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (art. 25-septies) ha imposto un’interpretazione della norma che avesse riguardo all’attività nell’ambito della quale è commesso il reato, come tale funzionale all’interesse dell’ente. Un’interpretazione, in altre parole, fondata sul concetto di “colpa di organizzazione” che contraddistingue il “sistema 231” e che consente di collegare la responsabilità dell’ente a un giudizio di rimproverabilità nei confronti dello stesso (Cass. SS.UU. n. 38343/2014).

In questo ambito interpretativo, si colloca anche la sentenza n. 48779 depositata ieri, con cui la Cassazione ha valutato la responsabilità sia degli amministratori della società nel cui campo di attività era avvenuto l’infortunio, sia della società stessa, avendo questa omesso di adottare ed efficacemente attuare un modello di organizzazione e gestione al fine di prevenire la commissione di reati colposi a suo vantaggio.

In particolare, i soggetti obbligati avevano omesso di valutare il rischio specifico della lavorazione a cui i dipendenti erano stati adibiti, nonché di informare e formare adeguatamente gli stessi circa i rischi connessi alla stessa; condotte omissive che avevano consentito e agevolato il consolidarsi di una prassi pericolosa, generalmente nota in ambito aziendale e utilizzata al fine di accelerare i tempi di lavorazione.

D’altro canto, non poteva riconoscersi alcuna abnormità del comportamento del lavoratore infortunato. Per la consolidata giurisprudenza di legittimità non è infatti idoneo a escludere il nesso di causalità tra la condotta omissiva del datore di lavoro e l’evento lesivo patito dal dipendente il compimento da parte di quest’ultimo di un’operazione che, seppure inutile e imprudente, non risulti eccentrica rispetto alle mansioni a questi specificamente assegnate nell’ambito del ciclo produttivo (Cass. n. 7955/2014).

La Corte ha così confermato l’impostazione dei giudici di merito, affermando come sugli imputati gravassero gli obblighi di acquisire l’adeguata consapevolezza della situazione e dello svolgimento usuale delle attività in azienda non conformi alle regole della sicurezza e di adottare le misure organizzative necessarie per ripristinare le corrette condizioni delle lavorazioni, quindi, prevedendo e valutando i rischi specifici delle attività e attuando la necessaria informazione e formazione dei lavoratori.

La colpa degli imputati è stata individuata, correttamente ad avviso della Corte, nella carenza di ordine organizzativo generale che, in quanto tale, rientra nelle scelte gestionali di fondo del datore di lavoro (Cass. n. 22606/2017). Proprio l’accertata carenza organizzativa, connotata dalla prassi aziendale consolidata e contra legem, ha correttamente costituito per la Corte il fondamento della responsabilità ex DLgs. 231/2001 perché tale da comportare un risparmio di spesa e un minore dispendio dei tempi di esecuzione oltre che dei materiali rispetto alla procedura corretta.

Una volta ricondotte le nozioni, giuridicamente distinte, di “interesse” e “vantaggio” alla condotta e non all’esito antigiuridico dei reati colposi di evento, la Corte ha riaffermato la loro compatibilità con la non volontarietà dell’evento lesivo, sempre che la condotta che ha cagionato quest’ultimo sia stata determinata da scelte rispondenti all’interesse dell’ente o sia stata finalizzata all’ottenimento di un vantaggio per l’ente medesimo.

Ricorre così il requisito dell’interesse quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire un’utilità per l’ente, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa. Pur non volendo il verificarsi dell’infortunio, il soggetto ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente, quale, ad esempio, un risparmio sui costi in materia di prevenzione (Cass. n. 2544/2016).

D’altro canto, ricorre il requisito del vantaggio, ad avviso della Corte, anche nel caso al suo esame, allorché la persona fisica, agendo per conto dell’ente, pur non volendo anche qui il verificarsi dell’evento morte o lesioni, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica di impresa incurante della sicurezza del lavoro, consentendo alla persona giuridica la massimizzazione del profitto.