Può discostarsi dalla quantificazione del profitto pur a fronte di accordi conciliativi tra il soggetto agente e l’Erario, fornendo adeguata motivazione
L’autonomia del procedimento penale per reati fiscali da quello amministrativo tributario costituisce il fondamento di due sentenze della Cassazione (nn. 47832 e 47837), entrambe depositate ieri.
Il principio – sancito dall’art. 20 del DLgs. n. 74/2000, secondo cui il procedimento amministrativo di accertamento e il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente a oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione – deriva da una complessa evoluzione normativa che, partita dalla c.d. “pregiudiziale tributaria” (L. n. 4/1929) è giunta all’attuale “doppio binario”.
In particolare, la citata disposizione statuisce la regola dell’indipendenza e della non interferenza reciproca tra il procedimento e il processo tributario, da un alto, e il processo penale; principio applicabile ai procedimenti giurisdizionali e alle relative sentenze, oltre che all’espletamento dei poteri amministrativi di indagine e alla confezione degli atti impositivi da parte dell’Amministrazione finanziaria.
D’altro canto, riguardo all’efficacia della sentenza penale, per l’art. 654 c.p.p. la sentenza penale definitiva fa stato nei confronti dell’imputato e della parte civile che si sia costituita o che sia intervenuta nel processo penale.
Di conseguenza, essa può produrre tale effetto vincolante nel processo tributario esclusivamente se l’Amministrazione finanziaria si sia costituita o sia intervenuta nel processo penale in qualità di parte civile e se la sentenza sia stata pronunciata a seguito di dibattimento, escludendosi così i riti alternativi.
A questo si aggiunga, sempre per l’art. 654 c.p.p., l’ulteriore limite di efficacia, assai rilevante, costituito dall’assenza nella “legge civile” di “limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa”, posto che nel processo tributario non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale (art. 7, comma 4 del DLgs. 546/1992).
In questo contesto normativo, la sentenza n. 47837 ha così affermato che il principio di autonomia vale anche i fini dell’individuazione dell’ammontare dell’imposta evasa per l’adozione del sequestro preventivo a fini di confisca (art. 12-bis del DLgs. n. 74/2000) per il reato di dichiarazione fraudolenta (art. 2 del DLgs. 74/2000) contestato nel caso di specie.
In altri termini, ad avviso della Corte, il giudice penale, sulla base di elementi di fatto, ben può discostarsi dalla quantificazione del profitto del fatto-reato pur a fronte di accordi conciliativi tra il soggetto agente e l’Erario, dovendo peraltro fornire, di tale autonomo potere, adeguata motivazione. L’accertamento e la determinazione dell’imposta evasa a opera del giudice penale – secondo una verifica che privilegia il dato reale rispetto a criteri di natura meramente formale – può, quindi, sovrapporsi e anche contraddire quanto eventualmente concluso avanti il giudice tributario. Diversamente, rivivrebbe una pregiudiziale tributaria non più prevista nell’ordinamento giuridico (Cass. n. 50157/2018).
Come si è detto, il principio di autonomia è fondamento anche della pronuncia n. 47832, relativa all’impugnazione di misura cautelare personale per il reato di indebita compensazione (art. 10-quater del DLgs. 74/2000) con crediti tributari di cui la ricorrente contestava l’asserita falsità per non essere stati oggetto di alcun accertamento definitivo in sede propriamente tributaria.
Sul punto, la Corte ha rilevato, innanzitutto, che nel procedimento incidentale cautelare la natura meramente indiziaria degli elementi a carico del soggetto indagato, sufficienti ai fini dell’adozione della misura, si pone in evidente contrasto logico con la pretesa della ricorrente per cui, a tal fine, occorrerebbe l’accertamento definitivo della avvenuta violazione tributaria. In ogni caso, proprio per il principio di autonomia dei procedimenti, penale e tributario, deve ritenersi comunque destituita di fondamento l’argomentazione per cui non sarebbe consentito contestare il reato di indebita compensazione di crediti tributari sino all’avvenuto, definitivo accertamento in sede tributaria della falsità del credito utilizzato a tal fine.
D’altronde, ad avviso della Corte, nel caso di specie doveva ritenersi in capo all’indagata la consapevolezza, quanto meno a livello indiziario, dell’inesistenza dei crediti portati in compensazione proprio attraverso lo studio di consulenza fiscale di cui la ricorrente era titolare; crediti, infatti, maturati per milioni di euro in seno a un’impresa artigiana dal volume di affari di poche migliaia di euro. Risultanza, questa, che avrebbe dovuto costituire un chiaro indice di fittizietà, tale da imporre ben più accurati controlli in ordine alla veridicità dei crediti oggetto dell’accollo tributario.