L’Avvocato generale della Corte di Giustizia ritiene non utilizzabili le perdite residue maturate quando la società era residente nell’altro Stato
L’Avvocato generale presso la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha rilasciato ieri, 17 ottobre 2019, le proprie Conclusioni relativamente alla causa C-405/18 (Aures). La causa si inserisce in un filone – quello dell’utilizzo delle perdite fiscali in uno Stato diverso da quello in esse si sono originate – assai “battuto” negli ultimi anni; le Conclusioni rappresentano, però, un landmark nel contesto di questo filone, andando ad analizzare, probabilmente per la prima volta in modo compiuto, il regime delle perdite all’atto del trasferimento della sede “vero e proprio” di una società da uno Stato all’altro.
Il caso è quello di una società di diritto olandese con stabile organizzazione nella Repubblica Ceca, la quale ha trasferito la propria sede amministrativa, e quindi la propria residenza fiscale, nella Repubblica Ceca, pur mantenendo la sede legale nei Paesi Bassi. Interpellato in merito alla possibilità, per la società ormai divenuta cèca, di utilizzare a riduzione del proprio reddito le perdite fiscali realizzate quando essa era residente in Olanda, l’Avvocato Generale ha dato una risposta sostanzialmente negativa, ritenendo che questa soluzione, pur rappresentando una restrizione alla libertà di stabilimento, risulta giustificata dall’esigenza di salvaguardare l’equilibrata ripartizione del potere impositivo tra i due Stati.
Volendo inquadrare sinteticamente le Conclusioni nel contesto della più recente giurisprudenza, va ricordato che, in termini generali, la sentenza del 22 febbraio 2018, cause C-398/16 e C-399/16 (X BV e X NV), ha stabilito la contrarietà al diritto comunitario delle legislazioni degli Stati membri che prevedono l’impossibilità di consolidare i risultati negativi delle controllate e delle stabili organizzazioni estere, determinando un regime di sfavore per gli investimenti all’estero.
Il principio è poi stato meglio precisato nelle sentenze C-650/16 del 12 giugno 2018 (Bevola, Jens W. Trock) e C-28/17 del 4 luglio 2018 (NN A/S), secondo le quali, ai fini di evitare fenomeni di doppia deduzione delle perdite, la deduzione delle stesse da parte della casa madre estera è possibile solo nel momento in cui vengano esaurite nello Stato di localizzazione della controllata o della branch tutte le modalità di compensazione di queste perdite.
Con le sentenze C-607/17 (Memira) e C-608/17 (Holmen) del 19 giugno 2019, la Corte di Giustizia ha però stabilito che questo carattere “definitivo” delle perdite non si ravvisa nel momento in cui esistano altre alternative messe a disposizione dallo Stato “di provenienza” per il relativo utilizzo; se, invece, le perdite residue possono essere utilizzate in altro modo (si cita la cessione d’azienda prima della liquidazione della società, con conseguente compensazione delle perdite con la plusvalenza realizzata, o l’incorporazione in un’altra società), ciò impedirebbe alle perdite di acquisire il carattere “definitivo” ed escluderebbe, quindi, un loro trasferimento alla controllante estera.
Nel riprendere tali nozioni, l’Avvocato generale ricorda che, di regola, le perdite sono prese in considerazione nel calcolo dell’imponibile dallo Stato “di provenienza” all’atto della migrazione all’estero della società (il principio è, del resto, stabilito in modo espresso anche dalla legislazione italiana con l’art. 166, comma 6, del TUIR). Per le perdite eventualmente eccedenti, le Conclusioni valutano se esse hanno carattere definitivo, secondo l’accezione sopra ricordata, rilevando che nella situazione oggetto della causa così non è, in quanto:
– la giurisprudenza che sinora ha analizzato la questione non ha mai esaminato il caso (che è quello in questione) in cui lo stesso soggetto può dedurre perdite che lui stesso ha prodotto in uno Stato diverso (evidentemente in anni anteriori al trasferimento della residenza fiscale);
– la stessa giurisprudenza ha ammesso, in linea di principio, la possibilità di utilizzare le perdite “definitive” in un altro Stato (pur, come detto, “stringendo le maglie” nell’ultimo periodo) alla condizione che il soggetto che le aveva prodotte cessasse l’attività in modo definitivo;
– posto che, nel caso in esame, la società esiste ancora in Olanda (dove ha la propria sede legale), sussisterebbe ancora la possibilità di utilizzare le perdite, qualora venisse ripresa in questo Stato un’attività economica generatrice di redditi positivi.
Le Conclusioni, sulla scorta di queste considerazioni, hanno dato parere negativo, il quale dovrà chiaramente essere confermato o rettificato dalla sentenza.
Resta da vedere, a questo punto, se gli stessi principi potranno essere stabiliti nel caso di migrazione della società all’estero senza lasciare nello Stato “di provenienza” un’entità (sede legale, o stabile organizzazione), caso in cui il carattere definitivo delle perdite che ancora residuino dopo la compensazione con l’imponibile assoggettato ad exit tax potrebbe essere sostenuto in modo più efficace.