Per la Cassazione il reato di dichiarazione fraudolenta sussiste anche quando a esso si affianchi una distinta e autonoma finalità extraevasiva
Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti e il reato a esso complementare relativo all’emissione di tali fatture – rispettivamente previsti dagli artt. 2 e 8 del DLgs. 74/2000 – richiedono il dolo specifico del fine di evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto.
La sentenza n. 42520 della Corte di Cassazione, depositata ieri, si sofferma su tale dolo in un caso di fatture “infragruppo”, in cui il “gestore” effettivo del gruppo – nonché principale destinatario degli eventuali benefici fiscali – aveva fatto ricorso, nello svolgimento della sua attività imprenditoriale, a diverse società prive di autonomia, di struttura organizzativa, di mezzi strumentali e di personale, costruite come “schermi” piegati ai suoi particolari interessi.
Venivano, in particolare, contestate le emissioni di fatture connotate da sovrafatturazioni poi riportate dalle società appaltatrici nelle rispettive dichiarazioni fiscali, effettuate solo per “gonfiare costi” al fine di acquisire maggiori finanziamenti da società di leasing interessate alle operazioni edilizie cui attenevano le fatture medesime (non si trattava dunque di “gruppo” in senso stretto, quanto meno sul piano fiscale).
La Cassazione ricorda, innanzitutto, che il bene protetto dalla fattispecie di cui all’art. 2 del DLgs. 74/2000 è l’interesse dell’Erario alla percezione dei tributi dovuti, prescindendo dalla realizzazione dell’evasione stessa, cui consegue l’illiceità penale della dichiarazione fraudolenta: si tratta cioè di un reato di pericolo e di mera condotta, a consumazione istantanea, in cui il legislatore ha inteso rafforzare in via di anticipazione la tutela del bene giuridico (Cass. SS.UU. n. 1235/2011).
Si è, in effetti, di fronte a una fattispecie che tiene conto di un sistema tributario, in tema di detraibilità dell’IVA, per cui in casi di emissione della fattura oggettivamente o anche soggettivamente inesistente viene a mancare lo stesso principale presupposto della detrazione dell’IVA, costituita dall’effettuazione di un’operazione (riferendosi l’art. 19 comma 1 del DPR 633/1972 all’imposta relativa alle “operazioni effettuate”).
Il versamento dell’IVA in caso di prestazione insussistente ovvero a un soggetto che non sia la genuina controparte apre la strada a un indebito recupero dell’imposta e rappresenta, così, un evento dirompente, atteso che il diritto alla detrazione di tale imposta non può prescindere dalla regolarità delle scritture contabili e in particolare della fattura, considerata documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa.
In altri termini, le disposizioni del DPR 633/1972 (artt. 19 e 26) legittimano la detrazione IVA – da parte del cessionario – solo in relazione a effettive operazioni commerciali e riconducono a unità il sistema della rivalsa e della detrazione, con la conseguenza che, in presenza di operazioni inesistenti, non si realizza l’ordinario presupposto impositivo, né la configurabilità stessa di un “pagamento a titolo di rivalsa”, né i presupposti del diritto alla detrazione.
Da qui, i giudici di legittimità derivano l’infondatezza della tesi difensiva relativa all’inconfigurabilità del dolo specifico di evasione in ragione della mancanza di un accertato risparmio di imposta, evidenziando, peraltro, come il reato di dichiarazione fraudolenta sussista anche quando a esso si affianchi una distinta e autonoma finalità extraevasiva.
Vale ancora la pena fare un cenno alla parte delle argomentazioni di tale decisione che si soffermano sul differente reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte previsto dall’art. 11 del DLgs. 74/2000, altrettanto rilevante nel caso in esame. Ai fini dell’integrazione di tale fattispecie, l’alienazione è “simulata”, ossia finalizzata a creare una situazione giuridica apparente diversa da quella reale, quando il programma contrattuale non corrisponde deliberatamente in tutto (simulazione assoluta) o in parte (simulazione relativa) all’effettiva volontà dei contraenti.
Da ciò consegue che, ove invece il trasferimento del bene sia effettivo, la relativa condotta non può essere considerata alla stregua di un atto simulato, ma deve essere valutata esclusivamente quale possibile “atto fraudolento”, idoneo a rappresentare una realtà non corrispondente al vero e a mettere a repentaglio o comunque ostacolare l’azione di recupero del bene da parte dell’Erario (Cass. n. 3011/2017).
Quanto alla nozione di “atti fraudolenti”, devono ritenersi tali tutti quei comportamenti che, quand’anche formalmente leciti, siano tuttavia connotati da elementi di inganno o di artificio, dovendosi cioè ravvisare l’esistenza di uno stratagemma tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali all’esecuzione.
Nel caso in esame, i giudici hanno, così, ricostruito una progressiva operazione, conseguente alla consapevolezza della possibilità dell’avvio di pretese erariali e fondata sulla coscienza dell’avvenuta instaurazione di un “giro di fatture fittizie”, diretta a separare artificiosamente i crediti fiscali dalla concreta possibilità di trovare soddisfacimento sui beni dei corrispondenti debitori.