Chi ha già ricoperto l’incarico di amministratore non può considerarsi «nuovo»

Di Maurizio MEOLI

Secondo la Corte d’Appello di Milano (sentenza n. 2513 del 10 giugno scorso), il soggetto che – avendo già ricoperto per tre anni la carica di amministratore non esecutivo in una società (periodo in cui era già iniziato il dissesto) – riassume l’incarico dopo un intervallo di dieci mesi, non può essere considerato a tutti gli effetti amministratore “nuovo”; e, quindi, pur riconoscendogli l’assenza di consapevolezza sulle vicende occorse nei mesi nei quali non ha ricoperto cariche nella società, certamente non può essere ignaro delle criticità in cui la società già versava.

In ogni caso, il persistere di tale situazione non può non essere percepito entro il mese successivo al (re)ingresso in carica. Nella specie, peraltro, rilevava come poche settimane dopo tale momento la società avesse deliberato la propria ricapitalizzazione, rendendo palese la situazione di crisi.

Ove poi, la relazione semestrale (gennaio/giugno), a prescindere dalla sua contestata correttezza, evidenzi (a metà ottobre) un capitale sociale ancora positivo per tre milioni di euro circa, ma una perdita, per i primi sei mesi dell’anno, pari a circa sei milioni di euro, sono da ravvisare “significativi e non trascurabili segnali d’allarme”, che, in assenza di specifici provvedimenti volti a imprimere un’inversione del trend negativo, avrebbero condotto a una integrale dissoluzione del capitale sociale prima della fine dell’anno.

Di conseguenza, della mancata attivazione di tali provvedimenti, così come della prosecuzione dell’attività sociale nonostante la perdita del capitale sociale, possono essere chiamati a rispondere tutti gli amministratori, anche quelli privi di deleghe.

La disciplina in tale materia introdotta dalla riforma del diritto societario (cfr. gli artt. 2381 commi 3 e 6 e 2392 comma 2 c.c.), infatti, ha indotto la Suprema Corte a sancire la responsabilità degli amministratori privi di deleghe che colposamente non abbiano rilevato l’esistenza di segnali d’allarme (anche impliciti nelle anomale condotte gestorie) che avrebbero dovuto indurli a esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo sollecitando gli amministratori delegati all’adozione di idonei rimedi (cfr. Cass. nn. 9546/2018 e 22848/2015).

Secondo la Corte d’Appello di Milano, in particolare, considerando il trend tracciato dalla relazione semestrale, gli amministratori privi di deleghe avrebbero dovuto ottenere dai delegati informazioni sulla gestione e sollecitare, immediatamente, gli stessi all’adozione degli opportuni rimedi, nonché, dai mesi di novembre e dicembre, stante l’intervenuta perdita del capitale sociale, l’adozione dei provvedimenti di cui agli artt. 24842485 e 2486 c.c.

Rileva il fatto che la semplice “facoltà” di chiedere agli organi delegati che siano fornite informazioni relative alla gestione della società “deve essere innescata”, in modo tale da trasformarsi in un vero e proprio obbligo, da elementi tali da porre sull’avviso gli amministratori privi di deleghe alla stregua della necessaria diligenza (ovvero da “segnali d’allarme”). Diversamente, la facoltà di richiesta di cui all’ultimo comma dell’art. 2381 c.c. si trasformerebbe proprio in quel generale obbligo di vigilanza che, viceversa, il legislatore della riforma ha inteso eliminare (così Cass. n. 17441/2016).

Rispetto a tale condotta omissiva non è corretta la considerazione per cui la violazione dell’art. 2486 comma 1 c.c. potrebbe derivare esclusivamente dal compimento di operazioni “attive” e “nuove” in contrasto con il dovere di gestire la società ai soli fini di conservare l’integrità e il valore del patrimonio sociale.
Tale ricostruzione contrasta con il secondo comma dell’art. 2486 c.c., nella parte in cui stabilisce la responsabilità solidale di tutti gli amministratori per i danni derivanti da atti od omissioni compiuti in violazione del precedente comma; e infatti, la Cassazione n. 2156/2015 ha precisato che sono estranei all’ambito applicativo della disposizione in esame gli atti ordinari (e non anomali) di adempimento delle obbligazioni preesistenti la cui omissione potrebbe comportare una responsabilità personale e solidale degli amministratori per violazione dell’obbligo di conservazione dei beni sociali.

Nel caso di specie, peraltro, la gestione conservativa della società non si poteva sostanziare nella mera omissione di condotte volte ad assumere nuovo rischio d’impresa, ma si doveva tradurre anche in alcune necessarie condotte attive, indirizzate alla tutela del patrimonio della società messo in gravissimo pericolo.

Ai fini della concreta determinazione del danno, infine, il ricorso, in via equitativa, al criterio dei netti patrimoniali, è reputato possibile in ragione della sussistenza delle seguenti circostanze: la difficoltà di attribuire una misura di danno per la brevità dell’arco di tempo (due mesi) cui si riferisce la responsabilità; il trasferimento in sede penale dell’azione nei confronti degli altri amministratori in carica; la natura omissiva della responsabilità contestata; il fatto che il danno sia stato concretamente imputato relativamente a soli due mesi, rispetto a dati e risultanze contabili che necessariamente si riferiscono a periodi semestrali/annuali.