È sufficiente che il contribuente, consapevole di non aver diritto alla compensazione richiesta dal suo commercialista, non intervenga

Di Ciro SANTORIELLO

Oggi, presumibilmente, fra gli illeciti del diritto penale tributario, quello cui più spesso viene fatto ricorso è il delitto di indebita compensazione di debiti erariali di cui all’art. 10-quater del DLgs. 74/2000.

La caratteristica di tale illecito, che lo differenzia rispetto alle altre fattispecie presenti nel citato decreto 74/2000m risiede nella circostanza che si riscontra quasi sempre la presenza, quale concorrente del reato accanto al contribuente, del professionista, il quale in alcuni casi partecipa all’illecito mediante il rilascio del c.d. visto di conformità (cfr. Cass. nn. 19672/2019 e 24800/2019) e in altri invece è il protagonista principale della vicenda, ideando la frode e dando corpo alla stessa, ricevendo poi dal privato il compenso per tale sua attività.

Inoltre, proprio la circostanza che nella commissione del delitto di indebita compensazione il professionista rivesta un tale ruolo centrale fa sì che assai di frequente il contribuente cerchi di difendersi sostenendo di essere ignaro della frode posta in essere in via autonoma dal suo commercialista, che aveva agito a sua piena insaputa.

Una tale metodologia di difesa è stata valutata dalla Cassazione con la sentenza n. 39333 depositata lo scorso 25 settembre.
Nel caso deciso dalla Suprema Corte vi era pieno riconoscimento della responsabilità del professionista mentre il contribuente – colpito da un provvedimento di sequestro preventivo – lamentava che tutta l’operazione indebita fosse avvenuta a sua insaputa, tanto è vero che inizialmente era stato qualificato come vittima di una frode, senza che fosse stato dimostrato alcun previo accordo con il commercialista ed essendo irrilevante che lo stesso avesse acquisito in una fase successiva la consapevolezza di quanto fatto dal suo professionista.

La replica della Cassazione è interessante per due ragioni. In primo luogo, se è vero che il privato non può essere responsabile del reato di indebita compensazione commesso dal suo professionista per il solo fatto di essere venuto a conoscenza di tale comportamento delittuoso dopo che lo stesso sia stato assunto, al contempo viene precisato che per chiamare il contribuente a rispondere di tale illecito non occorre un previo accordo con il commercialista, essendo sufficiente che egli, consapevole di non aver diritto alla compensazione richiesta dal suo professionista, non intervenga perché la relativa istanza venga presentata all’Erario e, rimanendo inerte, “goda” del profitto del reato commesso da altri.

In secondo luogo, la decisione presenta interesse nella parte in cui individua gli indici sulla base dei quali si può concludere che il privato sapesse della condotta delittuosa del commercialista.

Tali elementi sono individuati essenzialmente nel significativo importo del debito erariale dal cui pagamento il privato si vede esonerato e nell’impossibilità per il contribuente di formulare innanzi al giudice penale alcune ragioni e considerazioni che potessero instaurare in lui il convincimento di vantare verso l’Amministrazione finanziaria crediti da poter opporre in compensazione ai debiti sul medesimo gravanti.