L’avvento dei nuovi parametri per l’individuazione della crisi apre il dibattito professionale

Di Raffaele MARCELLO e Nicola OCCHINEGRO

Il DLgs. 12 gennaio 2019 n. 14, recante il “Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza”, ha assegnato al CNDCEC il compito di elaborare gli indici che fanno ragionevolmente presumere la sussistenza di uno stato di crisi dell’impresa.
La norma definisce la crisi come “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore”, ovvero “l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni”.

L’intervento della professione, quindi, consiste nel costruire e/o individuare, anche facendo riferimento alla prassi nazionale e internazionale, gli “indicatori di crisi” ovvero, per continuare ad attenersi alla lettera della disposizione di legge “gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rilevabili attraverso appositi indici che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale”.

Il compito è davvero arduo almeno per due diversi motivi:
– la scienza aziendalistica, che pure il legislatore menziona in tema di probabilità di futura insolvenza, non ha (ancora?) elaborato una teoria per la previsione dell’insolvenza, o meglio non esiste in letteratura un modello a cui ricorrere per spiegare (e quindi prevedere) con certezza il fenomeno del default di un’azienda;
– le difficoltà crescono in ragione del fatto che l’applicazione di indicatori che abbiano una concreta (non solo teorica) capacità rilevatrice della crisi equivale a elaborare un vero e proprio “modello di previsione dell’insolvenza” che possa reggere dignitosamente l’esame del backtesting (ossia il test statistico della validità predittiva).
Se, nella realtà, gli indicatori non si rileveranno discriminanti in misura adeguata, l’effetto che l’introduzione dello strumento avrà sulla prassi rischia di essere pericolosamente fuorviante e controproducente.

Da quanto si è appreso in questi giorni gli indici elaborati sono sette, di cui alcuni validi per tutte le attività economiche e altri applicabili ai diversi settori produttivi.
Rileva subito una (sostanziale) differenza tra il DSCR e tutti gli altri indici: mentre infatti per le restanti sei entità i dati presi in considerazione sono “a consuntivo” cioè riferiti a dati storici “osservati”, per il calcolo del DSCR occorre riferirsi a grandezze “previste”, cioè, di per sé stesse, già oggetto di una previsione, con evidente introduzione, nel valore dell’indice, di una componente soggettiva pur se in linea con la norma.

Come valore predittivo dell’insolvenza, il DSCR non rischia di essere eccessivamente legato alle valutazioni soggettive di chi è deputato a “stimare” i flussi (in particolare quelli posti a numeratore del rapporto)?

A partire da questa considerazione e nella consapevolezza, prima evidenziata, della estrema scivolosità dell’argomento, andrebbero poste alcune domande aperte senza la pretesa di conoscerne già la risposta, ma con l’esclusivo intento di alimentare un dibattito che possa proficuamente accrescere la conoscenza e le capacità dei professionisti che, con i dettami della legge, dovranno fare i conti.

Il DSCR non rischia di essere un indice… tautologico? Se il DSCR è inferiore a 1 significa che i flussi di cassa prospettici non sono sufficienti a far fronte regolarmente alle obbligazioni, ma questa è proprio la definizione che il legislatore dà all’insolvenza. Così ragionando, l’indicatore, più che un indizio rilevatore della crisi, parrebbe la misura sintetica dei risultati dell’attività di previsione svolta altrove, peraltro, con un non trascurabile grado di soggettività.

Su un piano più squisitamente pratico, come interpretare situazioni in cui, a fronte di un’auspicabile crescita del volume d’affari e delle marginalità, il DSCR assume valore inferiori all’unità in considerazione dell’assorbimento di risorse del CCN conseguente alla crescita?
Una stima affidabile del DSCR richiede la dotazione di un’infrastruttura gestionale e organizzativa non banale. Quante sono in percentuale le aziende a cui è rivolta la normativa (sono escluse peraltro le grandi imprese) che sono/saranno adeguatamente attrezzate?

Non si corre il rischio di introdurre un indicatore che poi, nella pratica del sistema di allerta, potrebbe finire nel dimenticatoio dei carneadi? Del resto pare che la bozza in preparazione da parte del Consiglio apra già alla possibilità dell’inutilizzo: “Se il DCSR non è disponibile oppure è ritenuto non sufficientemente affidabile per la inadeguata qualità dei dati prognostici”.