Per il principio costituzionale di colpevolezza è necessaria la conoscenza della qualifica di imprenditore dell’autore primario

Di Maria Francesca ARTUSI

Una nota vicenda di cronaca che ha coinvolto il conduttore televisivo Emilio Fede ha fornito l’occasione alla Cassazione – con la sentenza n. 37194 depositata ieri – di tornare su alcuni principi in materia di concorso del terzo nel reato di bancarotta.

La Corte d’Appello di Milano, in riforma della condanna di primo grado, aveva infatti assolto l’imputato dal delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale ex art. 216 del RD 267/1942, contestato in concorso con l’imprenditore individuale – conosciuto come Lele Mora – dichiarato fallito nel 2011, per la distrazione di somme di denaro per un importo complessivo di quasi 3 milioni di euro.

L’assoluzione derivava dalla carenza dell’elemento soggettivo del dolo di concorso, confermata dalla Cassazione nella pronuncia oggi in commento, che dichiara inammissibile il ricorso del Pubblico Ministero.
La centrale questione di diritto che viene affrontata attiene, appunto, al dolo del reato richiesto per il concorrente esterno.

I giudici di legittimità ritengono, in proposito, che il concorso di persona non qualificata nel reato di bancarotta fraudolenta richiede che detta persona sia consapevole della qualità di imprenditore del soggetto attivo primario, sebbene non sia necessario che la stessa si rappresenti la sussistenza dei requisiti soggettivi (tipologia e dimensioni dell’impresa) di fallibilità di quell’imprenditore (Cass. SS.UU. n. 19601/2008). Inoltre, in tale fattispecie delittuosa il fallimento o il dissesto non giocano il ruolo di “evento”, sicché è inutile il tentativo di ricercare una copertura dell’elemento psicologico, in termini di previsione e volontà (tra le tante Cass. n. 17819/2017).

Viene, altresì, ricordato – in termini più generali – che il reato di bancarotta fraudolenta, sia per fallimento dell’impresa individuale che per fallimento dell’impresa societaria, è un reato proprio, in quanto non può essere commesso che, rispettivamente, dall’imprenditore dichiarato fallito (art. 216 del RD 267/1942) e dagli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori della società dichiarata fallita (art. 223 del RD 267/1942).

Alla luce dei principi generali del diritto penale, l’extraneus è chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 110 c.p., in concorso con il soggetto qualificato, in presenza dei seguenti presupposti:
– l’attività tipica di almeno un “intraneus”;
– il contributo causale sul verificarsi del fatto da parte del terzo;
– la consapevolezza di quest’ultimo circa la qualifica del soggetto “intraneus”.

In particolare, tale ultimo requisito, trova copertura nel precetto dell’art. 27 della Costituzione, secondo l’esegesi compiuta dalla Consulta con la sentenza n. 364/1988, che si è occupata dei limiti del principio di inescusabilità dell’ignoranza della legge penale di cui all’art. 5 c.p., ma traccia, in premessa, il “quadro garantistico” di riferimento, che deve sempre guidare l’interprete nell’applicazione del precetto penale.

Nelle argomentazioni della pronuncia oggi in commento viene, così, riportato un passaggio di tale decisione della Corte Costituzionale: “per precisare ancor meglio l’indispensabilità della colpevolezza quale attuazione, nel sistema ordinario, delle direttive contenute nel sistema costituzionale vale ricordare non solo che tal sistema pone al vertice della scala dei valori la persona umana (che non può, dunque, neppure a fini di prevenzione generale, essere strumentalizzata) ma anche che lo stesso sistema, allo scopo d’attuare compiutamente la funzione di garanzia assolta dal principio di legalità, ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su congrui elementi subiettivi”.

In altre parole, la Consulta esclude che da una mera interpretazione della formula normativa possa desumersi la legittimità di responsabilità penali senza partecipazione soggettiva e, dunque, il criterio di imputazione, necessario ex art. 27 Cost., va riferito agli “elementi più significativi della fattispecie tipica del reato”, tra i quali rientra certamente la qualità dell’intraneus nei reati propri.

Nel caso di specie, dunque, al fine di affermare la responsabilità dell’extraneus sarebbe stato necessario che, al momento della condotta, lo stesso conoscesse la qualità di imprenditore individuale dell’autore principale del fatto. Mentre non viene condivisa la tesi del ricorrente che, riprendendo l’analogo argomento speso dal Tribunale di primo grado ai fini della condanna, fa discendere l’irrilevanza del profilo soggettivo dalla insindacabilità della dichiarazione di fallimento.