Il reato fallimentare è «speciale» perché tutela un bene giuridico più ampio

Di Maria Francesca ARTUSI

Non c’è concorso tra il reato di ricorso abusivo al credito, previsto dall’art. 218 del RD 267/1942, e il delitto di truffa previsto dall’art. 640 c.p. Il primo, infatti, ha un’oggettività giuridica più ampia rispetto al secondo, dal momento che è volto a tutelare non solo il patrimonio del nuovo creditore ma anche quello dei creditori preesistenti e comunque ad evitare, nell’interesse pubblico dell’economia nazionale, che soggetti destinati al fallimento facciano ricorso al credito distruggendo risorse che potrebbero essere impiegate in modo più proficuo.

Tanto è vero che la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 36985 depositata ieri, annulla la condanna per truffa di un soggetto che aveva indotto un imprenditore a ricorrere abusivamente al credito bancario, sebbene già insolvente, emettendo fatture per operazioni inesistenti, nonché alcuni altri soggetti a richiedere finanziamenti alla banca, in favore dell’impresa in difficoltà, facendo loro credere che tali somme sarebbero state restituite.

Pur nella chiara illiceità dell’operazione complessivamente posta in essere, secondo i giudici di legittimità il reato fallimentare “assorbe” quello “più generale” della truffa, in virtù del principio di specialità sancito dall’art. 15 c.p. (secondo cui “quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”).
Viene, così, innanzitutto escluso che sia configurabile un concorso formale tra i due reati e, successivamente, viene individuata quale sia la norma applicabile in quanto “speciale” rispetto all’altra.

Per quanto attiene alla prima problematica, la sentenza in commento ricorda che, prima che l’art. 32 comma 1 della L. 262/2005 modificasse il citato art. 218, non era possibile il concorso tra il ricorso abusivo al credito e la truffa in virtù dell’espressa clausola di riserva che rendeva applicabile il delitto fallimentare solo laddove il fatto non costituisse un più grave delitto. Poiché il ricorso abusivo al credito era punito nel massimo con la pena di due anni di reclusione, mentre il massimo edittale della truffa era pari a tre anni di reclusione, nel caso di possibile sussistenza di entrambe le fattispecie era configurabile solo la seconda.
La citata clausola di sussidiarietà è stata, tuttavia, espunta nel 2005 cosicché, da allora in poi, la questione va risolta in via interpretativa.

Passando, dunque, ai rapporti tra le due fattispecie, viene evidenziato che l’assunzione di ulteriore debito da parte di chi esercita un’attività di impresa e già versi in condizioni finanziarie e patrimoniali, tali da rendere improbabile il suo futuro adempimento, è condotta che reca danno non solo al patrimonio del soggetto che concede il nuovo credito e che dovrà sopportare il danno derivante dall’eventuale inadempimento – come avviene nel caso della truffa –, ma anche agli interessi di coloro che sono divenuti creditori in virtù di un titolo anteriore, poiché questi, in caso di insolvenza, concorreranno con il nuovo creditore e ciascuno di essi parteciperà in misura inferiore al riparto dell’attivo fallimentare.
Tra l’altro, proprio tale differenza giustifica la punibilità d’ufficio del reato fallimentare.

Vero è che quest’ultimo sussiste solo nel caso in cui l’imprenditore, nel ricorrere o nel continuare a ricorrere al credito, abbia tenuto un comportamento decettivo, dissimulando il proprio stato di crisi; mentre non è necessario che egli, allo scopo di convincere il futuro creditore, abbia fatto ricorso a veri e propri artifici e raggiri allo scopo di indurre in errore l’altro contraente come richiesto dall’art. 640 c.p.

In entrambi i casi vi è una condotta truffaldina, poiché nel ricorso abusivo al credito l’imprenditore approfitta della condizione di ignoranza in cui il creditore si trova, astenendosi dal comunicare le cattive condizioni patrimoniali in cui versa (similmente al caso di insolvenza fraudolenta di cui all’art. 641 c.p.). Sono qui, tuttavia, richiesti anche altri due elementi: quello della presenza di autori qualificati, appartenenti al mondo dell’impresa ed elencati tassativamente nell’art. 218 del RD 267/1942 (“amministratori, direttori generali, liquidatori e imprenditori esercenti un’attività commerciale”) e quello dell’intervento della pronuncia di fallimento, come pacificamente ritenuto dalla più recente giurisprudenza (cfr. Cass. n. 44857/2014).

Del resto, proprio la dichiarazione di fallimento rende concreto e attuale il danno cagionato per effetto della concessione del nuovo credito a coloro nei cui confronti l’imprenditore era già debitore.
Sulla base di tali argomentazioni, dunque, non vi è dubbio – per la sentenza in commento – che tra le due norme in esame sussista un rapporto di specialità che, utilizzando i criteri dell’art. 15 c.p., consente di individuare nell’art. 218 del RD 267/1942 la disposizione prevalente.