Sottrazione fraudolenta con prelievi ingiustificati dal conto «cassa contanti»

Nel caso affrontato dalla Cassazione, l’ammontare indebitamente prelevato è stato solo figurativamente simulato nelle scritture contabili

Di Stefano COMELLINI

Con la sentenza n. 35576 depositata ieri, la Cassazione ha ribadito che il profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente, del reato di cui all’art. 11 del DLgs. n. 74/2000 va individuato nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio del soggetto obbligato e, quindi, nel valore dei beni idonei costituire garanzia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria per il recupero delle somme evase.

Oggetto del ricorso era l’ordinanza confermativa di decreto di sequestro preventivo per equivalente, relativo al profitto dei reati di cui agli artt. 4 e 11 del DLgs. n. 74/2000, contestati al legale rappresentante di società di capitali, da un lato per l’omessa indicazione nell’allora modello UNICO SC di cospicui elementi attivi, dall’altro per la sottrazione al pagamento delle imposte a mezzo di atti fraudolenti, consistiti nell’effettuare prelevamenti dal conto di mastro “cassa contanti” assolutamente ingiustificati perché privi di causa economica, simulando solo figurativamente nelle scritture contabili l’ammontare indebitamente prelevato, con conseguente omessa IVA risultante dalle dichiarazioni periodiche.

La Cassazione ha ritenuto corretta la valutazione dei giudici di merito sulla sussistenza del fumus dei reati contestati e sulla determinazione del profitto sequestrabile. Per la Corte, infatti, integra il reato di cui all’art. 4 del DLgs. n. 74/2000 l’omessa indicazione di un congruo numero di fatture attive nella comunicazione telematica del modello dichiarativo, non potendo ricondursi a impossibilità di adempiere l’obbligo tributario la pretesa mancanza di risorse conseguente a rilevanti perdite economiche. Lo stato di insolvenza, infatti, non libera il contribuente dall’obbligo di dichiarare all’Erario l’effettiva consistenza degli elementi attivi e passivi maturati nell’anno di imposta.

Parimenti condivisibili si sono ritenute le conclusioni dei giudici di merito sul reato di cui all’art. 11 del DLgs. n. 74/2000. Si tratta di fattispecie di pericolo, integrata dall’uso di atti fraudolenti per occultare i propri beni al fine di sottrarsi al pagamento del debito tributario, delle sanzioni e degli interessi (Cass. n. 35853/2016). Per il perfezionamento del reato si richiede, pertanto, che gli atti fraudolenti siano idonei a impedire il soddisfacimento totale o parziale del Fisco (Cass. n. 7916/2007).

Nel caso di specie, il ricorrente aveva indicato nel partitario del conto “cassa contanti” una consistente posta. Il dato contabile, tuttavia, non corrispondeva alla realtà poiché in netto contrasto con la situazione debitoria in cui versava la società stante la mancanza di tale provvista. Tale somma di denaro, mai reperita, doveva, infatti, intendersi quale mera annotazione contabile.

D’altronde, a fronte della vana ricerca di disponibilità liquide nelle casse sociali, le schede contabili del conto “cassa contanti” riportavano analiticamente, con date e importi, i numerosi prelievi di denaro effettuati dal ricorrente nelle banche ove erano accesi i conti della società. Pertanto, l’indubbio artificio contabile, rivelatosi tale per non essere state le somme rinvenute in cassa, si spiegava sul presupposto della reale esistenza delle somme e dei relativi prelievi dai conti correnti sociali, con conseguente necessità di giustificare questi ultimi simulando la destinazione alle casse sociali del denaro del quale, invece, nella realtà non vi era più traccia.

Di qui, la conclusione per cui i prelievi dalle banche erano effettivi ma, poiché le somme non risultavano essere state impiegate per le esigenze sociali, doveva ritenersi che si fosse occultato, mediante atti fraudolenti costituiti dai detti artifici contabili, il depauperamento del patrimonio sociale e della garanzia generica del credito erariale. Non poteva trovare, quindi, applicazione nel caso di specie il principio secondo il quale non integra il reato di cui all’art. 11 del DLgs. n. 74/2000 la condotta di chi si limiti a disporre dei propri beni prelevando dal conto corrente bancario le somme in precedenza depositate (Cass n. 25677/2012), stante la presenza di un quid pluris costituito dagli anzidetti artifici contabili caratterizzati da indubbia efficacia decettiva.

Stabilita l’effettiva sussistenza del fumus commissi delicti, la Corte ha condiviso il giudizio di merito per cui il profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente, del reato di cui al detto art. 11 va individuato, per richiamata giurisprudenza di legittimità, nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio del soggetto obbligato e, quindi, nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase (Cass. n. 10214/2015). Seguendo tale principio, i giudici di merito, con valutazione fatta propria dalla Corte, avevano ritenuto applicabile il criterio del valore dei beni sottratti all’esecuzione, reputando attendibile l’indicazione dell’entità dei prelievi dai conti correnti bancari e pervenendo correttamente alla cifra sottoposta a sequestro sulla base della considerazione dell’importo dell’IVA non versata per l’anno di imposta e delle somme sottratte all’esecuzione.

2019-08-06T09:59:00+00:00Agosto 6th, 2019|News|
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