Non può essergli ascritta una condotta omissiva se non è certo che fosse a conoscenza della prassi elusiva o che l’avesse colposamente ignorata

Di Maria Francesca ARTUSI

Nonostante la severità di gran parte della giurisprudenza penale nei confronti del datore di lavoro nel caso di un infortunio occorso a un lavoratore, non è possibile configurare una responsabilità “da posizione” tale da sconfinare in una forma di responsabilità oggettiva.
In tal senso si era già espressa di recente la Corte di Cassazione n. 20833/2019 sulla stessa linea interpretativa si colloca la sentenza n. 32507 depositata ieri.

Si trattava in quest’ultimo caso del decesso di un operatore ecologico che, invece di salire nella cabina del veicolo addetto alla raccolta dei rifiuti in attesa della successiva fermata, utilizzava quale postazione di lavoro la staffa posta alla base del sistema di ancoraggio dei contenitori mentre il mezzo era in movimento.
Ciò che veniva contestato al datore di lavoro era, in sostanza, il fatto di aver omesso nell’organizzazione dell’attività di assicurarsi che i veicoli adibiti alla raccolta dei rifiuti venissero utilizzati in maniera conforme alle prescrizioni e, soprattutto, di non aver fornito agli operatori un’adeguata formazione e informazione sui rischi connessi all’uso improprio degli stessi.

Condannato in primo e in secondo grado per omicidio colposo ai sensi dell’art. 589 c.p., il legale rappresentante della srl, di cui era dipendente il soggetto deceduto, ricorreva ulteriormente per cassazione precisando che la persona offesa si occupava di raccolta dei rifiuti da più di dieci anni e che, quindi, conosceva bene il processo lavorativo e la pericolosità di “appendersi” a un camion sfornito di apposita pedana.

I giudici di legittimità ritengono di accogliere tale ricorso. Innanzitutto viene evidenziato che la vittima era “senz’altro una persona esperta”. Alla luce di ciò, non può ritenersi che egli non possedesse le cognizioni necessarie per rendersi conto del rischio che correva mediante la condotta, incontrovertibilmente imprudente, da lui posta in essere.
Tanto più che l’incidenza sul processo eziologico che ha portato all’infortunio della mancata ottemperanza all’obbligo di impartire un’adeguata formazione e informazione va valutata in relazione al grado di complessità e di tecnicità degli incombenti a cui è chiamato il lavoratore e delle cautele da adottare e, quindi, all’eventualità che il lavoratore, senza un adeguato addestramento, possa non essere in grado di rendersi conto dei rischi insiti in un certo modus operandi.

Ne deriva che, qualora la pericolosità di una certa manovra sia immediatamente percepibile non solo da parte di un operatore esperto ma anche di un lavoratore alle prime armi e, perfino, del c.d. quisque de populo (cioè, l’uomo comune non addestrato a quella determinata mansione), il quesito inerente alla sussistenza della causalità della colpa per omessa formazione e informazione del dipendente diviene particolarmente delicato.

Nelle motivazioni si aggiunge anche che una “diuturna sorveglianza sui mezzi” che espletavano la loro attività circolando ininterrottamente va considerata “impossibile”. L’unica soluzione, nel caso concreto, era quella di delegare i capisquadra, presenti sul mezzo, alla vigilanza sull’osservanza delle disposizioni volte a evitare manovre come quella posta in essere dall’infortunato.

E questo, in effetti, è stato fatto dal datore di lavoro, a cui non è dunque qui addebitabile una culpa in vigilando, non essendo esigibile l’adozione di misure ulteriori e più pregnanti; dalle risultanze probatorie – non valorizzate in questo senso dai giudici di merito – emergeva infatti che che lo stesso autista del camion, che rivestiva qualità di caposquadra, aveva ammonito il collega a non aggrapparsi al mezzo in movimento.

In sintesi, per la Cassazione, il datore di lavoro è certamente responsabile del mancato intervento finalizzato ad assicurare l’osservanza delle disposizioni in materia di sicurezza, ma tale condotta omissiva non può essergli ascritta laddove non si abbia la certezza che egli fosse a conoscenza della prassi elusiva o che l’avesse colposamente ignorata. Tale certezza può, in alcuni casi, inferirsi da considerazioni di natura logica, laddove, ad esempio, possa ritenersi che la prassi elusiva costituisca univocamente frutto di una scelta aziendale, finalizzata, in ipotesi, a una maggiore produttività.

Quando però, come in questo caso, non vi siano elementi di carattere logico per dedurre la conoscenza o la conoscibilità di prassi aziendali incaute da parte del garante, è necessaria l’acquisizione di elementi probatori certi e oggettivi che dimostrino tale conoscenza o conoscibilità. Diversamente opinando, si porrebbe in capo al datore di lavoro una inaccettabile responsabilità oggettiva.