Per quanto ben articolato e adeguato, deve tradursi e integrarsi con un sistema di procedure, informazioni e controlli

Di Maria Francesca ARTUSI

Nella materia degli infortuni sul lavoro si è passati da un approccio giurisprudenziale “iperprotettivo”, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello maggiormente “collaborativo”, in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori. Questi ultimi, ai sensi dell’art. 20 del DLgs. 81/2008, sono anch’essi gravati del dovere di osservanza di specifiche disposizioni cautelari nonché di quello di agire con diligenza, prudenza e perizia.

Ci si è mossi, così, verso il principio di autoresponsabilità del lavoratore, abbandonando il criterio esterno delle mansioni e sostituendolo con il parametro della prevedibilità, intesa come dominabilità umana del fattore causale (Cass. n. 41486/2015).

Tuttavia – come emerge bene dalla giurisprudenza penale – nessuna esclusione di responsabilità datoriale può configurarsi all’interno di quella “area di rischio”, nella quale di colloca l’obbligo del garante di assicurare le condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti impropri del lavoratore (Cass. n. 21587/2007).

Nel riprendere tale evoluzione interpretativa, la sentenza n. 29538 della Corte di Cassazione, depositata ieri, ha confermato la responsabilità per un infortunio non solo del datore di lavoro, ma anche della persona giuridica ai sensi dell’art. 25-septies del DLgs. 231/2001.
In linea generale, viene ribadito che il sistema disegnato dal DLgs. 231/2001 prevede una responsabilità peculiare ovvero un “tertium genus” rispetto a quelle tradizionali, penale ed amministrativa, compatibile sia con il principio di responsabilità per fatto proprio (il fatto commesso dalla persona fisica è sicuramente proprio anche dell’ente in forza del rapporto organico), sia con quello di colpevolezza, da ricostruire in termini di “colpa di organizzazione” (Cass. SS.UU. n. 38343/2014).

Tale “colpa in organizzazione” va intesa in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati.

Quanto ai criteri di imputazione all’ente dell’azione illecita, l’interesse o il vantaggiovanno riferiti, nell’ambito dei reati colposi d’evento, alla condotta e non all’esito antigiuridico della stessa: è ben possibile, infatti, che una violazione della disciplina cautelare sia posta in essere nell’interesse dell’ente o comunque ne determini un suo vantaggio.

Nel caso di specie, l’incidente occorso riguardava un operaio esperto, addetto al reparto verniciatura con qualifica di capoturno, che dopo aver rimosso le protezioni, senza fermare l’impianto (“verniciatura a nastro” di recente installazione) accedeva all’interno della zona pericolosa adiacente per verificare il sospetto malfunzionamento di alcuni rulli. Svolgendo tale operazione, era però rimasto incastrato con il braccio tra un rullo e l’altro con conseguente distacco dell’arto e successivo decesso per emorragia.

Il vantaggio dell’ente viene, pertanto, individuato nella velocizzazione degli interventi manutentivi sulla linea e nella riduzione dei materiali di scarto derivanti da un rischioso avvicinamento da parte dei lavoratori ai rulli in movimento.
I giudici di legittimità evidenziano, inoltre, nelle proprie motivazioni come il modello organizzativo adottato dalla società non era stato poi “efficacemente attuato”, come richiesto dall’art. 6 comma 1 lett. a) del DLgs. 231/2001.

Infatti, pur essendosi provveduto all’analisi dei rischi con riferimento all’impianto ove si è in concreto verificato l’infortunio (impianto di verniciatura tramite rulli), l’istruzione operativa predisposta era incompleta rispetto alle modalità di ricerca e soluzione dei difetti sul nastro (attività che – appunto – stava svolgendo l’infortunato). Era, altresì, mancato un monitoraggio sulle misure prevenzionistiche già approntate in azienda e di adeguamento della specifica procedura ai rischi propri dell’attività in questione (tanto che la stessa Asl aveva segnalato la carenza di specifici audit).

Sempre più centrale appare dunque il tema della “efficace attuazione” del modello che non può restare lettera morta, per quanto ben articolata e adeguata alla struttura e all’organizzazione della società in cui viene adottato, ma deve tradursi e integrarsi con un sistema di procedure, di informazione e di controlli.