È necessaria la sussistenza dell’incapacità strutturale non transitoria a soddisfare regolarmente le obbligazioni

Di Antonio NICOTRA

Con ordinanza n. 15572/2019, la Cassazione ritorna sui requisiti che connotano lo stato di insolvenza ex art. 5 comma 2 del RD 267/42 – quale presupposto oggettivo per il fallimento dell’impresa – e, conformandosi ai precedenti interventi (tra gli altri, cfr. Cass. n. 29913/2018), rimarca il principio secondo il quale lo stato di insolvenza della società si realizza in presenza di una situazione d’impotenza strutturale – e non soltanto transitoria – a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività.

Nel caso di specie, una società veniva dichiarata fallita in ragione dell’inadempimento dell’obbligazione vantata dalla banca creditrice istante il fallimento. La Corte di Appello rigettava il reclamo della debitrice, osservando – con soluzione condivisa anche dalla Corte di Cassazione – che, nella specie, lo stato d’insolvenza era desumibile sia dal mancato pagamento del debito della banca, sia dalla condotta della società che aveva dismesso il patrimonio (con conseguente rilevante eccedenza del passivo sull’attivo), rendendo in questo modo vane le azioni esecutive dei creditori.

La vertenza impatta sull’interpretazione dell’art. 5 comma 2 del RD 267/42, che identifica l’insolvenza come l’incapacità del debitore “di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni” ed i cui indici si identificano tanto negli “inadempimenti” quanto negli “altri fatti esteriori”. Si rammenta, a tal proposito, che il concetto di “insolvenza” si distingue da quello di “inadempimento”, poiché il primo indica un globale dissesto patrimoniale (uno stato in cui versa il debitore), il secondo, invece, ha una portata ridotta alla singola obbligazione e si identifica come la mancata esecuzione della prestazione.

L’insolvenza presuppone, in particolare, una valutazione delle condizioni economiche necessarie (secondo un criterio di normalità) all’esercizio dell’attività e si identifica come lo stato d’impotenza funzionale, non transitoria, a soddisfare le obbligazioni inerenti all’impresa. Tale stato può esprimersi anche nell’incapacità di produrre beni con margine di redditività da destinare alla copertura delle relative esigenze, prima fra tutte l’estinzione dei debiti (tra le altre, cfr. Cass. n. 30209/2017).

Ai fini della dichiarazione di fallimento, è necessario, quindi, l’accertamento – secondo una prognosi irreversibile – di una situazione d’impotenza economico-patrimoniale idonea a privare il soggetto della possibilità di far fronte, con mezzi “normali”, ai propri debiti. L’eventuale eccedenza del passivo sull’attivo patrimoniale – come nel caso di specie – costituisce, nella maggior parte dei casi, uno dei tipici “fatti esteriori” che dimostrano l’impotenza dell’imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni.

Il dato contabile del raffronto tra l’attivo ed il passivo patrimoniale dell’impresa, tuttavia, non equivale necessariamente allo stato di insolvenza dal momento che, anche in presenza di un eventuale sbilancio negativo, è possibile che l’imprenditore continui a godere del credito e sia, in concreto, in condizione di soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, configurandosi l’eventuale difficoltà in cui egli versa come meramente transitoria.
Analogamente, non può escludersi uno stato di insolvenza pur in presenza di un attivo maggiore del passivo, allorquando l’imprenditore non sia in grado, per evidente perdita di fiducia nel mercato, di reperire le risorse finanziarie idonee al regolare adempimento delle obbligazioni.

A margine del commento e delle considerazioni sopra esposte, può osservarsi, inoltre, che il DLgs. 14/2019, recante la disciplina del Codice della crisi e dell’insolvenza (che entrerà in vigore il 15 agosto 2020), tra le principali novità, distingue espressamente lo stato di “crisi” – quale presupposto per l’attivazione dei nuovi strumenti di allerta, ad esempio da parte dei sindaci e revisori (art. 14 del DLgs. 14/2019) – da quello di “insolvenza”, eliminando, in tal modo, alcune querelles interpretative relative alla vigente disciplina.

L’art. 2 comma 1 lett. a) del DLgs. 14/2019, in particolare, definisce la crisi come lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come “inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”.

L’insolvenza, invece, ai sensi dell’art. 2 comma 1 lett. b) del DLgs. 14/2019, è definita come lo stato del debitore che si manifesta con “inadempimenti od altri fatti esteriori”, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. La nozione di insolvenza introdotta dal nuovo Codice presenta una formulazione che coincide con l’attuale definizione contenuta nell’art. 5 comma 2 del RD 267/42, pertanto, può ragionevolmente ritenersi che l’orientamento della giurisprudenza di legittimità sopra esposto resti valido anche dopo l’entrata in vigore del DLgs. 14/2019.