La Cassazione ha confermato che il professionista ne risponde e che può avere un ruolo non marginale nell’associazione finalizzata a reati tributari

Di Maria Francesca ARTUSI

A distanza di poche settimane la giurisprudenza è chiamata nuovamente a confrontarsi con la possibile responsabilità penale del professionista che appone un visto di conformità infedele o mendace.
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 19672 dello scorso 8 maggio aveva, infatti, confermato una condanna per dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (si veda “Il professionista risponde penalmente per il visto di conformità mendace” del 9 maggio 2019). Con la sentenza n. 24800 depositata ieri, tale impostazione viene confermata.

Si trattava in questo caso dell’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di un professionista per essersi associato insieme ad altri (art. 416 c.p.) allo scopo di commettere diversi reati riferibili alle fattispecie di cui al citato art. 3 del DLgs. 74/2000 e di indebita compensazione ai sensi dell’art. 10-quater del medesimo decreto.
Dalle indagini della Guardia di Finanza era stato possibile riscontrare la sussistenza di una vera e propria organizzazione di mezzi e di persone (risultando essere anche state costituite società) finalizzata alla realizzazione di operazioni (accollo del debito; compensazioni mediante crediti IVA) che, seppur formalmente dotate del crisma della liceità, anche grazie alla condotta partecipativa di professionisti del settore, integravano dei reati tributari.

La responsabilità dell’attestatore derivava soprattutto dalla considerazione per cui, nel caso in cui lo stesso avesse effettuato gli accertamenti necessari (controllo della conservazione e della regolare tenuta delle scritture contabili obbligatorie, in linea con le indicazioni espresse dall’Agenzia delle Entrate) avrebbe potuto e dovuto riscontrare il carattere fraudolento delle operazioni stesse, data l’incongruità del credito d’imposta dichiarato rispetto al volume di affari, non giustificato dall’attività economica in concreto esercitata dall’impresa.
Ai fini di tale verifica viene richiamato proprio l’istituto del visto di conformità come delineato dagli artt. 35 e 36 del DLgs. 241/1997.

Viene, inoltre, ribadito dai giudici di legittimità che anche nel caso del visto “leggero” il professionista è tenuto a riscontrare la corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione con le risultanze della relativa documentazione e la conformità alle disposizioni che disciplinano gli oneri deducibili e detraibili, le detrazioni e i crediti di imposta, lo scomputo delle ritenute d’acconto. Apponendo tale visto, il professionista effettua un’attestazione con riferimento all’esecuzione dei controlli previsti nell’art. 2 del decreto 164/1999.

I controlli sono finalizzati a evitare errori materiali e di calcolo nella determinazione degli imponibili, delle imposte e delle ritenute e nel riporto delle eccedenze risultanti dalle precedenti dichiarazioni. Tali controlli implicano la verifica: della regolare tenuta della contabilità (ai fini delle imposte sui redditi e ai fini IVA); della corrispondenza dei dati esposti in dichiarazione alle risultanze delle scritture contabili e alla relativa documentazione; della corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione alla documentazione prodotta dal contribuente nel caso del modello 730.

Quanto alla responsabilità penale, il professionista, reo del rilascio di un mendace visto di conformità leggero o pesante ovvero di un’infedele asseverazione dei dati, ai fini degli studi di settore risulta esposto anche a sanzioni penali, incorrendo nel reato di cui all’art. 3 del DLgs. 74/2000, dal momento che l’apposizione di un visto mendace costituisce un mezzo fraudolento idoneo ad ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’Amministrazione finanziaria, indicando in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi.

Così, nella vicenda in esame, proprio il ruolo di professionista risulta aver assunto un’importanza fondamentale per la riuscita della complessa operazione fraudolenta.
In proposito la Cassazione ricorda come la normale attività professionale di commercialista, qualora realizzata, pur nella sua formale aderenza ai canoni della professione, con il conclamato scopo di concorrere alla realizzazione di un’associazione per delinquere, configura condotta penalmente rilevante per la sussistenza dell’art. 416 c.p.; trattandosi di reato che per la sua realizzazione comporta una condotta a forma libera sottoposta alle sole condizioni che l’agente intenda aderire all’accordo associativo e che il suo comportamento sia, anche se parzialmente, funzionale alla realizzazione del progetto criminoso perseguito dai consociati.
Tale condotta, se essenziale per l’organizzazione della struttura associativa, qualifica detta partecipazione come quella di organizzatore dell’organismo criminoso.