La Cassazione ha stabilito che per impugnare il sequestro dei sistemi informatici va dimostrata la titolarità del segreto
Il segreto professionale opponibile al sequestro penale non può essere esteso alle professioni non organizzate in ordini e collegi.
La vicenda affrontata dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 14082, depositata ieri, ha a oggetto una contestazione relativa a esercizio abusivo della professione, truffa, appropriazione indebita e ingresso abusivo in sistema informatico. Da ciò era conseguito il sequestro del materiale utilizzato nello “studio professionale” dell’indagato proprio in relazione a tale specifica attività; materiale che – tra l’altro – l’indagato, la moglie e una collaboratrice avevano cercato di occultare all’autorità giudiziaria procedente.
La difesa, per dimostrare la propria legittimazione a impugnare il provvedimento, aveva richiamato le Sezioni Unite n. 40963/2017, che in effetti ammettevano il ricorso avverso il sequestro probatorio di un computer o di un supporto informatico anche qualora ne risulti la restituzione previa estrazione di copia dei dati ivi contenuti, sempre che sussista l’interesse, concreto e attuale, all’esclusiva disponibilità degli stessi.
Tuttavia, la pronuncia in commento evidenzia come le citate Sezioni Unite facessero riferimento unicamente a casi in cui il privato può reclamare una “esclusività” del dato anche nei confronti dell’autorità giudiziaria e la presenza di un interesse qualificato, enunciato dalla legge o, in via interpretativa, dalla giurisprudenza nazionale o sovranazionale. In altre parole, a fronte della ritenuta illegittima attività professionale svolta e della commissione di delitti anche in tale ambito, la possibilità di opporre il segreto avrebbe dovuto passare attraverso la dimostrazione della titolarità di una situazione giuridica tipica cui l’ordinamento riconosce tale specifica facoltà.
Si tratta, ad esempio, della segretezza delle fonti giornalistiche, del diritto al rispetto della vita privata e familiare, del segreto professionale tassativamente ricollegato da specifica previsione codicistica ai ministri di confessioni religiose, agli avvocati, agli investigatori privati autorizzati, ai consulenti tecnici, ai notai, ai medici, ai chirurghi, ai farmacisti, alle ostetriche e a ogni altro esercente una professione sanitaria nonché agli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale.
Tale ultima categoria comprende anche tutti quei professionisti che hanno ottenuto il riconoscimento del diritto di astensione dal deporre attraverso leggi speciali. La Cassazione elenca, in proposito, i consulenti del lavoro (art. 6 della L. 12/1979), i consulenti in proprietà industriale (art. 5 del DM 3 aprile 1981), i dottori commercialisti, i ragionieri e i periti commerciali (L. 507/1987), i dipendenti del servizio pubblico per le tossicodipendenze (art. 120 del DPR 309/1990) e a quanti operano presso enti, centri, gruppi, che abbiano convenzioni con le ASL (art. 117 del DPR 309/1990).
Può essere utile ricordare che il segreto professionale è, al tempo stesso, un diritto e un dovere: un dovere deontologico finalizzato a rafforzare il rapporto fiduciario tra professionista e cliente; un diritto tutelato da numerose norme di diritto penale e civile, sostanziale e processuale. Manca, però, nel nostro ordinamento una definizione legislativa onnicomprensiva di “segreto”, sebbene – come si è appena detto – siano numerose le norme che ne sanciscono l’inviolabilità e i limiti. Ciò che, d’altro canto, emerge chiaramente dalla normativa è che il segreto professionale non è invocabile da chiunque, ma è necessariamente legato a una specifica attività professionale.
Per quanto concerne i dottori commercialisti e gli esperti contabili, le principali fonti normative sono la “legge professionale” (art. 5 del DLgs. 139/2005) e i codici deontologici, oltre alle norme relative alla rilevanza penale della rivelazione del segreto professionale (art. 622 c.p.) e alla facoltà di astenersi dal rendere testimonianza sia nel processo penale che nel processo civile (artt. 199 e 200 c.p.p. e 249 c.p.c).
Nel caso di specie, il ricorrente si definiva “tributarista”, che – secondo i giudici di legittimità – rappresenta di per sé una figura atipica, non coincidente con quella del commercialista in quanto non appartenente al medesimo ordine professionale e prevista da disposizioni che, al contrario, rendono esplicita la mancanza di qualsivoglia possibilità di opporre segreti di sorta.
In tale prospettiva, per la Cassazione non possono qui rilevare né i codici deontologici, né le disposizioni in materia di professioni non organizzate in ordini o collegi definite dalla L. 4/2013 che “in nulla incide sulla disciplina del segreto professionale né prevede che il codice di autoregolamentazione possa introdurre norme ad integrazione della specifica disciplina contenuta negli artt. 200 e ss. c.p.p.”.