Le competenze dovranno appartenere ai professionisti chiamati a comporre gli OCRI e a coloro che affiancheranno debitori e creditori
L’art. 4 del nuovo Codice della crisi d’impresa, sotto il titolo “Doveri delle parti” recita: “Nell’esecuzione degli accordi e nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza e durante le trattative che le precedono, debitore e creditori devono comportarsi secondo buona fede e correttezza”.
Lo stesso art. 4 dettaglia ulteriormente al comma 2 lett. a) che il debitore ha il dovere di “illustrare la propria situazione in modo completo, veritiero e trasparente” e al comma 3 che i creditori hanno il dovere “di collaborare lealmente con il debitore, con i soggetti preposti alle procedure di allerta e composizione assistita della crisi, con gli organi nominati dall’autorità giudiziaria nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza”.
Si tratta di una norma generale applicabile a tutto il sistema della gestione della crisi e dell’insolvenza.
Per i professionisti (siano essi commercialisti o avvocati) chiamati ad affiancare ed assistere debitore e creditori nel percorso delineato dal decreto legislativo è importante avviare una riflessione su che cosa il legislatore abbia inteso realizzare ponendo l’accento in modo così esplicito sugli obblighi di buona fede, al punto da declinarli nelle loro componenti: correttezza, trasparenza, verità, lealtà.
Un chiarimento fondamentale compare nella relazione illustrativa al Codice della crisi ove è spiegato che “con le misure di allerta, si mira a creare un luogo d’incontro tra le contrapposte, ma non necessariamente divergenti, esigenze, del debitore e dei suoi creditori, secondo una logica di mediazione e composizione, non improvvisata e solitaria, bensì assistita da organismi professionalmente dedicati alla ricerca di una soluzione negoziata, con tutti i riflessi positivi che ne possono indirettamente derivare, anche in termini deflattivi del contenzioso civile e commerciale”.
Con queste premesse illustrative, gli obblighi di buona fede trovano la loro giustificazione non solo come richiamo al principio generale della teoria delle obbligazioni (l’art. 1175 c.c. stabilisce che “il debitore ed il creditore debbono comportarsi secondo le regole della correttezza”), ma proprio con riferimento alla logica di mediazione e composizione assistita da organismi professionalmente dedicati alla ricerca di una soluzione negoziata che caratterizza il Codice della crisi.
Non è certo la prima volta che il legislatore introduce meccanismi compositivi con lo scopo di deflazionare il sistema giustizia. Lo ha già fatto con la mediazione civile e con la negoziazione assistita. In ognuno di questi casi lo ha fatto sottolineando il dovere di condurre le trattative in modo amichevole e secondo buona fede. Nel caso della crisi di impresa il legislatore ha parlato per la prima volta esplicitamente anche di trasparenza, che è corollario naturale del principio di buona fede, come illustrato più volte dalla Cassazione (cfr. Cass. n. 23873/2013).
Come anche nella mediazione civile e nella negoziazione assistita, il bilanciamento protettivo rispetto all’obbligo di buona fede è la riservatezza delle procedure, che il Codice della crisi prevede in più punti: all’art. 4 per i creditori, all’art. 5 per i componenti degli organismi e dei collegi preposti alle procedure di allerta e composizione assistita della crisi, all’art. 19 per la riservatezza dell’accordo raggiunto a conclusione del procedimento di composizione assistita della crisi e all’art. 21 per i limiti di riservatezza riguardanti gli atti relativi al procedimento e i documenti prodotti o acquisiti nel corso dello stesso.
La nuova legge sulla composizione della crisi abolisce la parola fallimento e toglie la connotazione di disvalore all’insuccesso dell’attività imprenditoriale. Il bilanciamento è che l’imprenditore ed i creditori lavorino insieme su un piano di onestà per risolvere la crisi nel modo meno dannoso per ciascuno.
L’introduzione di un meccanismo di mediazione e composizione nella gestione della crisi d’impresa impone ai professionisti che si trovano ad operarvi una riflessione attenta sul loro modo di condurre la ricerca della soluzione negoziata.
Sia gli avvocati sia i commercialisti sono abituati a gestire le trattative avendo sempre presente il possibile sbocco processuale che queste potrebbero avere.
Il sistema giudiziario italiano è basato sul principio dispositivo della prova, vale a dire sul principio in base al quale chi esercita l’azione deve fornire le prove che sostengono la sua domanda e chi oppone un’eccezione deve a sua volta provarla. Nessuna parte è tenuta a produrre le prove a suo sfavore.
Questo genera un atteggiamento guardingo nella gestione delle controversie poiché, tenendo a mente il possibile sbocco processuale, il professionista opera cercando di non far ammettere al cliente fatti che potrebbero essere usati processualmente contro di lui ed evitando di portare in luce elementi di prova che rischierebbero di andare in danno del suo assistito.
Anche prescindendo dalla visione processualistica, le tecniche di gestione delle trattative commerciali gestite dai professionisti sono spesso orientate ad una logica del massimo vantaggio per il proprio assistito, che raramente tiene in conto i bisogni delle altre parti coinvolte nella negoziazione. La nuova consapevolezza di cui i professionisti debbono dotarsi è che, quando si lavora in un’ottica di mediazione e composizione basata sul principio di buona fede, è necessario dotarsi di strumenti e competenze nuove.
La mediazione appartiene al più generale mondo dell’ADR (alternative dispute resolution), ovvero modalità alternative di risoluzione dei conflitti, la cui logica non è quella di una negoziazione basata sul principio di diffidenza e sul fine della prevalenza di una parte sull’altra, ma è fondata invece sulla logica cosiddetta win-win, ossia del raggiungimento del miglior risultato possibile per tutte le parti.
In questa prospettiva assumono significato i principi di buona fede, correttezza, trasparenza, verità e lealtà introdotti dal legislatore nel Codice della crisi, poiché la negoziazione win-win prevede che le parti si mettano a disposizione l’una dell’altra senza reticenze ed operino al fine di raggiungere un risultato che tenga conto degli interessi di tutti i soggetti coinvolti.
Non si può operare secondo una logica di mediazione e composizione come previsto dalla relazione illustrativa, senza dotarsi delle competenze di negoziazione non conflittuale necessarie per saperlo fare.
E questo significa che tali competenze dovranno appartenere in primis ai professionisti chiamati a comporre gli OCRI (organismi di composizione della crisi d’impresa), ma anche a coloro che affiancheranno debitori e creditori nella gestione della crisi.
Il cambiamento che si richiede ai professionisti è tutt’altro che semplice, poiché implica il passaggio da una logica di negoziazione avversariale ad una logica di negoziazione non conflittuale.
Tuttavia, trascurare il significato profondo degli sforzi fatti dal legislatore per introdurre nel nostro sistema legislativo metodologie alternative di composizione dei conflitti, significherebbe perdere un’occasione importante per mettere in evidenza e ricordare, anche a noi stessi, la funzione sociale dei professionisti ed il loro ruolo al servizio della collettività.