La previsione del contributo integrativo per i professionisti “senza cassa” non inibisce la forza espansiva dell’art. 2 comma 26 della L. 335/1995
Con una serie di pronunce intervenute nell’ultimo anno, la Cassazione ha definitivamente dato risposta a una questione molto dibattuta, quale l’iscrizione obbligatoria alla Gestione separata dell’INPS (art. 2, comma 26 della L. n. 335/1995) del professionista non iscritto alla Cassa previdenziale di appartenenza, ma comunque titolare di redditi derivanti dallo svolgimento di attività professionale.
Nella risoluzione della questione hanno rilevanza marginale i motivi per cui, di fatto, a fronte dell’iscrizione all’albo professionale, non risulta iscrizione alla Cassa; nel caso degli avvocati, per esempio, le controversie riguardano i periodi in cui tale iscrizione non era obbligatoria (Cass. n. 32167/2018) oppure l’ipotesi del praticante avvocato (Cass. n. 32608/2018), mentre nel caso degli ingegneri la questione involge docenti con attività di insegnamento per i quali l’art. 7 dello Statuto dell’INARCASSA non impone l’obbligo di iscrizione (Cass. n. 32166/2018).
Nel caso affrontato dalla sentenza n. 32508/2018 la controversia riguarda un dottore commercialista iscritto all’albo professionale ma non alla relativa Cassa (CNPADC), per non aver superato il limite minimo di reddito imposto per l’iscrizione obbligatoria.
Ciò che rileva e che accomuna tutte queste ipotesi è la necessità che, in applicazione del principio dell’universalità delle tutele, i redditi prodotti siano comunque assoggettati a contribuzione, mediante l’iscrizione di questi professionisti “senza cassa” nella Gestione separata INPS. Tale gestione, secondo un meccanismo di parafiscalità (il riferimento è ai redditi di cui all’art. 53 del TUIR), raccoglie i versamenti contributivi relativi a redditi di particolari categorie di lavoratori, derivanti dallo svolgimento di attività di lavoro autonomo per professione abituale ancorché non esclusiva.
Con il tempo la Gestione separata ha finito per avere carattere di gestione residuale, per effetto dell’estensione dell’obbligo assicurativo, in presenza di alcune circostanze, a quasi tutti i lavoratori autonomi, non solo i collaboratori coordinati e continuativi, ma anche gli addetti ai servizi turistici, ad attività di intermediazione, lavoratori autonomi occasionali sopra una certa soglia di reddito, solo per fare qualche esempio (oltre naturalmente agli amministratori di società).
La questione si complica nel caso del professionista che svolga attività professionale soggetta all’iscrizione all’albo, anche in assenza di iscrizione alla Cassa, per cui è previsto il pagamento di una contribuzione c.d. integrativa (o di solidarietà). Secondo l’indirizzo interpretativo inaugurato dalla Sezione lavoro della Cassazione su questo tema, la questione deve leggersi alla luce del principio dell’universalizzazione delle tutele e non del riparto di competenze tra le varie gestioni (pubbliche e private). Sotto questo profilo appare chiaro che il versamento del contributo integrativo non ha la stessa valenza e funzione del versamento contributivo soggettivo dovuto da tutti i professionisti normalmente iscritti alle Casse.
Si tratta infatti, nel caso del contributo integrativo, di una contribuzione “sterile”, secondo la felice espressione usata dalla Corte, ossia non finalizzata alla creazione di una posizione previdenziale e, quindi, non produttiva di alcuna copertura di rischi della vecchiaia, dell’invalidità, della morte (in favore dei superstiti). È un contributo di solidarietà che non rientra, secondo una logica di ricostruzione sistematica della funzione e degli scopi della Gestione separata, nell’ambito di quella contribuzione obbligatoria descritta dall’art. 18comma 12 del DL n. 98/2011, conv. L. n. 111/2011 (norma interpretativa dell’art. 2 comma 26 citato), che, nell’intento di chiarire quali professionisti siano tenuti all’iscrizione alla Gestione separata, menziona i soggetti che svolgano “attività non soggette al versamento contributivo agli enti, sulla base dei rispettivi ordinamenti”.
In altri termini, secondo le parole della Corte, l’unica forma di contribuzione obbligatoria capace di inibire la forza espansiva della norma di chiusura di cui all’art. 2 comma 26 citato è rappresentata dalla contribuzione correlata a un obbligo di iscrizione alla Gestione di categoria e non la contribuzione integrativa, che non è correlata all’obbligo di iscrizione alla Cassa e che, per sua natura, non attribuisce al lavoratore una copertura assicurativa contro i rischi per i quali sono previste le corrispondenti prestazioni previdenziali.
Ciò indipendentemente sia dalla disciplina sostanziale delle previdenze di categoria e dalla loro privatizzazione (DLgs. n. 509/1994), sia dall’effettiva utilità della contribuzione versata dal professionista alla Gestione separata, dal momento che, come accade per tutte le forme di assicurazione obbligatoria, l’imposizione dell’obbligo non è collegata alla peculiarità della storia lavorativa di ciascun iscritto, non essendo contemplato nel nostro ordinamento un principio generale di corrispondenza o di sinallagmaticità tra quanto versato e la fruizione effettiva delle singole prestazioni previdenziali.