Per la Consulta, i dieci anni devono valere come limite massimo disancorato dalla pena principale
È costituzionalmente illegittimo l’art. 216 ultimo comma del RD 267/1942 nella parte in cui dispone che la condanna per uno dei fatti di bancarotta fraudolenta importa “per la durata di dieci anni” l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità a esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa. La norma dev’essere letta nel senso che la condanna per uno dei fatti di bancarotta fraudolenta importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa “fino a dieci anni”. A stabilirlo è la sentenza n. 222 della Corte Costituzionale, depositata ieri.
La questione è stata recentemente (ri)sollevata dall’ordinanza n. 52613/2017 della Cassazione – in relazione agli artt. 216 ultimo comma e 223 ultimo comma (che al primo rinvia) – con riferimento agli artt. 3, 4, 27, 41 e 117 Cost.
Si ricorda che, secondo l’orientamento maggioritario, la durata di dieci anni è fissata inderogabilmente, tanto emergendo dal dato testuale della disposizione, con conseguente esclusione della regola della parametrazione alla pena principale dell’art. 37 c.p. (tra le altre, Cass. nn. 17690/2010 e 39337/2007). Questa interpretazione, pur contrastata da altra ricostruzione fondata sulla necessità di una lettura costituzionalmente orientata (Cass. nn. 23720/2010 e 9672/2010), risulta assolutamente consolidata dopo la dichiarazione di inammissibilità della questione da parte della sentenza n. 134/2012 della Consulta, essendosi in più occasioni ritenuto che tale la pronuncia avrebbe “implicitamente” confermato la validità dell’interpretazione recepita dall’indirizzo maggioritario (Cass. nn. 11257/2013 e 30341/2012).
Nel ricordato intervento della Consulta, peraltro, si sottolineava come la soluzione prospettata dai giudici al tempo remittenti – ovvero l’aggiunta delle parole “fino a” nell’art. 216 comma 4 L. fall. – sarebbe stata solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento della questione, dal momento che sarebbe stato anche possibile prevedere una pena accessoria predeterminata, ma non in misura fissa (ad es., da 5 a 10 anni), o una diversa articolazione delle pene accessorie in rapporto all’entità della pena detentiva. L’addizione normativa richiesta era stata, quindi, reputata soluzione noncostituzionalmente obbligata ed eccedente i poteri di intervento della Consulta, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore.
La nuova ordinanza di rimessione, inoltre, ha evidenziato che in quell’occasione si era anche sottolineata l’opportunità che il legislatore realizzasse una riforma del sistema delle pene accessorie che lo rendesse pienamente compatibile con i principi della Costituzione (in particolare con l’art. 27). Monito al quale non ha fatto seguito alcun intervento; il che ha indotto a sollecitare una nuova pronuncia volta a porre rimedio a un’illegittimità costituzionale già paventata e sulla cui “manifesta fondatezza” non pare potersi dubitare.
La nuova decisione della Corte Costituzionale, infatti, ritiene la questione ammissibile e fondata in relazione agli artt. 3 e 27 Cost. (con assorbimento degli ulteriori profili di censura).
Si sottolinea, in primo luogo, come la durata fissa delle pene accessorie di cui all’art. 216 ultimo comma del RD 267/1942 non appaia, in linea di principio, compatibile con i principi costituzionali in materia di pena e, in particolare, con i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio.
Posto che l’art. 216 contempla diverse ipotesi di bancarotta fraudolenta connotate da un ben differente disvalore, la rigidità applicativa in questione presenta il rischio di risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso – e dunque in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. – rispetto ai fatti di bancarotta fraudolenta meno gravi; nonché distoniche rispetto al menzionato principio dell’individualizzazione del trattamento sanzionatorio.
A fronte di ciò, ci si chiede se, alla luce del precedente rappresentato dalla Corte Costituzionale n. 134/2012 – che, si ribadisce, non ha ravvisato una soluzione costituzionalmente obbligata in grado di prendere il posto di quella che sarebbe da dichiarare illegittima – sia comunque possibile un intervento del Giudice delle leggi.
La risposta è positiva in ragione di due fattori: il legislatore non ha provveduto a quella riforma del sistema delle pene accessorie in grado di renderlo pienamente compatibile con i principi della Costituzione (auspicata dalla stessa sentenza n. 134/2012); l’evoluzione in atto nella stessa giurisprudenza costituzionale in materia di sindacato sulla misura delle pene.
In relazione a questo secondo profilo, la Consulta n. 236/2016 ha stabilito che, laddove il trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore per una determinata figura di reato sia manifestamente irragionevole a causa della sua evidente sproporzione rispetto alla gravità del fatto, un intervento correttivo del giudice delle leggi è possibile a condizione che il trattamento sanzionatorio medesimo possa essere sostituito sulla base di “precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo”, intesi quali soluzioni sanzionatorie già esistenti, idonee a eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata; ferma restando la possibilità di un intervento del legislatore che individui, nell’ambito della propria discrezionalità, altro – e in ipotesi più congruo – sistema sanzionatorio, purché rispettoso dei principi costituzionali.
In tale ottica, non è condivisa la soluzione – prospettata dall’ordinanza di rimessione – di eliminare l’inciso “per la durata di dieci anni”, con conseguente riespansione della regola dell’art. 37 c.p., che àncora la durata della pena accessoria non determinata a quella della pena principale inflitta. Tale soluzione, infatti, finirebbe per sostituire l’originario automatismo legale con un diverso automatismo, che rischierebbe altresì di risultare incoerente rispetto all’intento del legislatore di colpire in modo (debitamente) severo gli autori dei delitti di bancarotta fraudolenta; non consentendo di discernere le valutazioni alla base della determinazione della pena principale da quelle da porre alla base della determinazione delle pene accessorie.
Occorre, invece, guardare agli artt. 217 (bancarotta semplice) e 218 (ricorso abusivo al credito) del RD 267/1942, ai sensi dei quali la durata delle medesime pene accessorie è stabilita discrezionalmente dal giudice “fino a” un massimo determinato dalla legge (due anni nel caso della bancarotta semplice e tre anni nel caso del ricorso abusivo al credito).
Seguendo questa logica, si deve procedere a sostituire nell’attuale ultimo comma dell’art. 216 del RD 267/1942 la previsione della “durata fissa di dieci anni” delle pene accessorie con la previsione della loro durata “fino a dieci anni”. Soluzione che consentirà al giudice di determinare, con valutazione caso per caso e disgiunta da quella correlata alla pena detentiva, la durata delle pene accessorie previste dalla disposizione censurata, sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p.; durata che potrebbe dunque risultare, in concreto, maggiore di quella della pena detentiva contestualmente inflitta, ma comunque contenuta nel limite massimo di dieci anni.
L’accoglimento della questione in tali termini, infine, rende inammissibile il dubbio relativo all’art. 223 ultimo comma del RD 267/1942, dal momento che il contenuto di quest’ultima norma – che opera un rinvio “mobile” alla disposizione incisa dalla pronuncia di illegittimità – è destinato a essere automaticamente modificato in conseguenza della pronuncia medesima.