Nell’ambito del reddito d’impresa, le differenze registrate sulla cassa valute e sui conti non denominati in euro sono rilevanti ai fini fiscali
È prassi di quasi tutte le società con frequenti movimentazioni con l’estero quella di detenere conti non in euro sui quali movimentare gli incassi o i pagamenti in valuta.
La rilevazione di queste operazioni non trova una disciplina espressa nei principi contabili. Tuttavia, si registra una prassi comune presso le imprese volta a contabilizzare queste operazioni utilizzando il cambio del giorno dell’incasso o del pagamento.
Per comprendere i risultati che porta questa prassi è opportuno confrontarli con quelli che, ordinariamente, si avrebbero con l’incasso o il pagamento su un conto in euro.
Prendendo ad esempio un credito di 600.000 USD originatosi il 19 settembre 2017 con tasso di cambio 1/1,1972 (e quindi valorizzato in contabilità per 501.169,40 euro), si ipotizzi che lo stesso sia stato incassato il 14 novembre 2017, quando il tasso di cambio era pari a 1/1,1745.
Se l’incasso avviene su un conto in euro, si rileva un utile su cambi realizzato (e, quindi, tassato) per 9.686,28 euro.
Ai medesimi risultati si giungerebbe se l’incasso avvenisse su un conto in USD, contabilizzando il credito al cambio del 14 novembre 2017.
Se la società utilizza un conto in dollari, occorre poi valorizzarne il saldo alla data di chiusura dell’esercizio. Ipotizzando che l’incasso dei 600.000 USD sia il primo movimento del conto, questo viene acceso nell’attivo il 14 novembre 2017 per 510.855,68 euro.
Essendo il cambio con l’euro pari a 1/1,1993 al 29 dicembre 2017 (giorno antecedente più prossimo al 31 dicembre 2017 per cui sono disponibili le quotazioni), il conto di 600.000 USD viene valorizzato a fine esercizio per 500.291,84 euro); la società rileva, quindi, una perdita su cambi – deducibile, per quanto verrà oltre affermato – sulla cassa e conti in valuta per la differenza di 10.563,84 euro.
Un’altra tecnica comunemente utilizzata è quella di movimentare il conto al cambio originario di iscrizione del credito (per gli incassi) o al cambio originario di iscrizione del debito (per i pagamenti); in presenza di più movimentazioni (come normalmente avviene), la società è tenuta ad individuare un criterio (ad esempio, FIFO o media ponderata) per stabilire a quali valori viene movimentata la valuta, ma ciò non comporta alcuna “distorsione”, in quanto le differenze si compensano al termine dell’esercizio.
Riprendendo l’esempio precedente ed adottando questa tecnica:
– all’atto dell’incasso del credito, non emerge alcun utile su cambi;
– il conto in dollari viene movimentato al 14 novembre 2017 per 600.000 USD che, al cambio in cui si è originato il credito (1/1,1972, tasso del 19 settembre 2017), corrispondono a 501.169,40 euro;
– lo stesso conto, convertito al cambio di 1/1,1993 al 29 dicembre 2017, viene valorizzato a fine esercizio per 500.291,84 euro;
– emerge una perdita su cambi (deducibile, sempre in virtù di quanto verrà oltre affermato) per la differenza di 877,56 euro.
Come si può vedere, quindi, le due tecniche di contabilizzazione portano a risultati, anche dal punto di vista fiscale, del tutto omologhi.
La perdita su cambi dedotta di 877,56 corrisponde, infatti, esattamente alla differenza tra l’utile su cambi tassato di 9.686,28 euro (che emerge dalla valorizzazione del credito al cambio del giorno di incasso) e la perdita di 10.563,84 euro (derivante dalla conversione in euro del conto in dollari al termine dell’esercizio).
Al pari di quanto avviene in ambito contabile, anche sotto il profilo fiscale la fattispecie non è disciplinata in modo espresso dall’art. 110 del TUIR.
Si tende, generalmente, a considerare fiscalmente rilevanti i maggiori o minori valori della cassa valute derivanti dalla valutazione della cassa secondo il cambio dell’ultimo giorno dell’esercizio; analogo trattamento è riservato ai saldi dei conti correnti in valuta, di sopra esaminati (in questo senso si sono pronunciate l’Agenzia delle Entrate con la risposta sub A resa nel corso della videoconferenza del 18 maggio 2006, pur non recepita in alcun documento ufficiale, e la circolare Assonime n. 24 del 16 giugno 2006).
Si segnala, tuttavia, in senso contrario la sentenza della C.T. Reg. Milano n. 6/32/11 del 25 gennaio 2011, secondo cui gli utili e le perdite derivanti dalla conversione dei conti correnti bancari in valuta sarebbero invece irrilevanti ai fini fiscali.