Secondo il Tribunale di Roma il contratto di consulenza con il sindaco non è nullo
Il Tribunale di Roma, nella sentenza n. 3028/2018, analizza importanti aspetti della responsabilità degli organi amministrativi e di controllo di una spa, sia in relazione al caso di illecita prosecuzione dell’attività sociale nonostante la perdita del capitale che con riguardo a pagamenti effettuati per consulenze non rese o affidate a sindaci.
Ciò nel contesto dell’azione esercitata dal curatore del fallimento di una spa che denunciava come la prosecuzione dell’attività fosse stata resa possibile dall’iscrizione in bilancio di attività inesistenti (in particolare, crediti per premi di acquisto superiori al costo delle merci acquistate); circostanza alla quale i convenuti replicavano sottolineando come il patrimonio netto della società avrebbe dovuto considerarsi comunque positivo prendendo in considerazione l’effettivo valore dei suoi immobili e delle sue partecipazioni.
I giudici romani osservano, in primo luogo, come la diminuzione del capitale sociale per perdite – ove queste rendano necessaria l’adozione dei provvedimenti previsti dalla legge o la cessazione dell’attività di impresa – debba essere apprezzata sulla base di una situazione patrimoniale predisposta secondo le regole di redazione del bilancio di esercizio.
L’estensione della disciplina del bilancio alla situazione patrimoniale comporta l’impossibilità di utilizzare ai fini della determinazione dell’attivo patrimoniale criteri di valutazione diversi e, in particolare, l’impossibilità di rivalutare i beni iscritti all’attivo al fine di far emergere plusvalori latenti nel patrimonio sociale in grado di contrarre o escludere la perdita, stante l’impossibilità di modificare i criteri di valutazione da un esercizio all’altro, sancita dall’art. 2423-bis c.c., salve le deroghe consentite “in casi eccezionali”, che riguardano la valutazione oggettiva dei beni e che non possono individuarsi nell’esigenza della società di compensare le perdite emerse nel corso della gestione.
Ne deriva che la non contestata esposizione di attività inesistenti non può essere compensata dalla “asserita” mancanza di esposizione in bilancio di attività effettivamente esistenti e non correttamente valutate, con la conseguenza, nel caso di specie, che il patrimonio netto della società non poteva che considerarsi negativo e che i rilievi del curatore del fallimento sono fondati.
L’illecita prosecuzione dell’attività sociale comporta la responsabilità per i danni costituiti dalla differenza dei netti patrimoniali che la società esponeva alle due differenti date della perdita del capitale sociale e della dichiarazione di fallimento, operate le opportune rettifiche e riclassificazioni alla luce della accertate falsità di voci del bilancio e sottratto, comunque, il valore di tutte le componenti negative che si sarebbero realizzate anche se la fase di liquidazione fosse immediatamente iniziata. Di tale situazione sono ritenuti responsabili, innanzitutto, gli amministratori: sia quelli operativi che quelli privi di deleghe.
Questi ultimi, infatti, in presenza di una palese falsificazione (come nel caso di specie), non possono giustificare la mancata adozione dei provvedimenti conseguenti al verificarsi della causa di scioglimento artatamente occultata facendo leva sulle sole informazioni ricevute dagli amministratori “operativi”, essendo comunque obbligati ad agire informati. La responsabilità, peraltro, è ravvisata altresì non solo sul revisore legale, ma anche sui sindaci. Il Tribunale, infatti, non ritiene dubitabile che l’illecita prosecuzione dell’attività sulla base di “evidenti appostazioni contabili inveritiere” avrebbe dovuto essere rilevata anche da questi, inducendoli ad attivare i relativi poteri di reazione (tale soluzione, peraltro, non appare condivisibile in ragione dell’assenza di doveri di controllo sul contenuto del bilancio da parte dei sindaci/revisori).
In ordine al danno causato da pagamenti per consulenze mai ricevute dalla società (corrispondente al relativo ammontare), poi, si precisa come esso debba essere risarcito da tutti i componenti del CdA, quando, da un lato, deve presumersi che, in mancanza di qualsiasi allegazione e prova contraria al riguardo, tutti avessero il potere di operare sui conti della società, e, dall’altro, deve ritenersi che, indipendentemente dal ruolo rivestito in concreto da ciascuno, l’affidamento di incarichi di consulenza per importi rilevanti, che non risulti oggetto di specifiche deleghe, avrebbe dovuto costituire argomento di valutazione da parte del CdA ed essere considerato da ciascun consigliere, quanto meno, dopo l’effettuazione dei primi pagamenti con relative registrazione in contabilità.
Nessun obbligo risarcitorio, invece, è configurabile rispetto al fatto di avere stipulato (e pagato) contratti di consulenza con uno dei sindaci della società; circostanza che, a giudizio del fallimento attore, avrebbe comportato la nullità dei contratti per violazione dell’art. 2399 comma 1 lett. c) c.c. e la responsabilità risarcitoria per i relativi pagamenti in capo sia agli amministratori che al sindaco, quale concorrente. Soluzione, questa, rigettata dal Tribunale di Roma in ragione del fatto che l’art. 2399 c.c. non dispone alcuna nullità dei contratti stipulati tra sindaci e società, ma solo la loro ineleggibilità/incompatibilità e la loro decadenza; d’altra parte, il comportamento contestato, indipendentemente da ogni considerazione circa la sua illegittimità, non appare di per sé idoneo a causare un danno al patrimonio sociale che giustifichi la domanda di risarcimento.