Per la Consulta l’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è contraria ai principi di ragionevolezza e uguaglianza
La Consulta ha dichiarato illegittimo l’art. 3, comma 1 del DLgs. 23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato.
In particolare, la Corte Costituzionale ha ritenuto costituzionalmente illegittima la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore. La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane ma la Consulta ha annunciato ieri la decisione con un comunicato stampa.
La Corte Costituzionale è intervenuta su quel decreto del Jobs Act che disciplina la tutela applicabile al licenziamento illegittimo dei lavoratori del settore privato assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 (o a cui si applichi la stessa normativa secondo quanto previsto dall’art. 1 del DLgs. 23/2015).
Oggetto dell’esame della Consulta è stato il meccanismo di determinazione dell’indennità riconosciuta al lavoratore nei casi in cui, all’esito del giudizio di impugnazione del licenziamento, risulta accertato che non ricorrono gli estremi del recesso datoriale per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa: per queste ipotesi, l’art. 3, comma 1 del DLgs. 23/2015 prevede che il giudice dichiari estinto il rapportodi lavoro alla data del licenziamento e condanni il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque fissa nel minimo e nel massimo.
Tali importi minimi e massimi, in origine, erano pari, rispettivamente, a 4 e 24 mensilità, mentre oggi, per effetto della modifica operata dal c.d. decreto “dignità”, il limite minimo è pari a 6 mensilità, mentre quello massimo è pari 36 mensilità (trattasi, per la precisione, degli importi che valgono per le imprese che raggiungono i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, commi 8 e 9, della L. 300/70, in quanto l’art. 9, comma 1, del DLgs. 23/2015 dispone che, per le piccole aziende, l’ammontare dell’indennità prevista dall’art. 3, comma 1, del decreto citato è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di 6 mensilità).
Detti limiti, descritti per completezza, non sono stati oggetto della decisione della Corte Costituzionale, come evidenziato dal comunicato di ieri. La pronuncia di incostituzionalità ha riguardato solamente il meccanismo di determinazione dell’indennità di licenziamento, lasciato inalterato dal c.d. decreto “dignità”.
Nell’ordinanza di promovimento del giudizio di legittimità costituzionale in questione, non era stato ravvisato il contrasto con la Costituzione in ragione dell’avvenuta eliminazione della tutela reintegratoria (se non per i licenziamenti nulli, discriminatori e per specifiche fattispecie del licenziamento disciplinare). Come è stato, infatti, osservato dal giudice remittente, la Corte Costituzionale ha già più volte statuito che la tutela reintegratoria non costituisce l’unico possibile paradigma attuativo dei precetti costituzionali di cui agli articoli 4 e 35, che, rispettivamente, sanciscono che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” e che “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”.
La questione era invece che l’indennità risarcitoria riconosciuta dalle norme del Jobs Act avrebbe dovuto essere ben più consistente ed adeguata. In particolare, secondo il giudice remittente la normativa era in contrasto innanzitutto con l’art. 3 della Costituzione, in quanto l’importo di tale indennità non aveva carattere compensativo né dissuasivo ed avrebbe avuto conseguenze discriminatorie; inoltre perché l’eliminazione totale della discrezionalità valutativa del giudice non avrebbe consentito di applicare una diversa tutela a casi molto dissimili fra loro. Secondo il giudice remittente, la normativa censurata avrebbe anche violato gli artt. 4 e 35 della Costituzione, avendo attribuito un controvalore monetario irrisorio e fisso, oltre che gli artt. 117 e 76 della Costituzione per il mancato rispetto di fonti sovranazionali e comunitarie.
A quanto è dato sapere dal comunicato stampa di ieri, la Corte Costituzionale ha ritenuto la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e in contrasto con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli artt. 4 e 35 della Costituzione. Tutte le altre questioni relative ai licenziamenti sono invece state dichiarate inammissibili o infondate.
Per conoscere le motivazioni della decisione si dovrà attendere il deposito della sentenza nelle prossime settimane.