L’ammissione al concordato non implica il riconoscimento del credito, contestabile anche in sede fallimentare
Con sentenza n. 22785 depositata ieri, la Corte di Cassazione affronta una peculiare questione in tema di opposizione allo stato passivo, stabilendo che l’ammissione della società alla procedura di concordato preventivo non costituisce un accertamento giudiziale definitivo ex art. 2909 c.c., né rappresenta una condizione sufficiente per l’insinuazione al passivo del credito del professionista attestatore. Nell’ipotesi in cui il concordato non abbia avuto esito positivo, l’esattezza dell’adempimento dell’attestatore può essere contestata, ex post, anche in sede fallimentare.
Nel caso di specie, una società veniva inizialmente ammessa al concordato preventivo, tuttavia, a seguito della relazione negativa del commissario giudiziale ex art. 172 del RD 267/42 e del mancato raggiungimento delle maggioranze per l’approvazione del concordato ex art. 177 del RD 267/42, il tribunale decideva per il fallimento della società.
Nella relazione del commissario giudiziale, in particolare, venivano evidenziate l’inattendibilità dei dati contenuti nella proposta di concordato e le gravi inesattezze della relazione compiuta dall’attestatore.
Per la Suprema Corte, l’ammissione della società alla procedura di concordato non costituisce un’approvazione definitiva anche dell’attività di relazione predisposta dal professionista ex art. 163 comma 3 del RD 267/42, né costituisce un apprezzamento di competenza esclusiva del tribunale in fase concordataria.
In sede fallimentare, infatti, il tribunale può compiere una valutazione di esattezza della prestazione del professionista in relazione ai risultati ottenuti dal commissario giudiziale sulla base di un controllo più approfondito.
Pertanto, pure in mancanza di un’eccezione di inadempimento della curatela ex art. 1460c.c., il credito del professionista attestatore può essere negato in sede di opposizione al passivo fallimentare dal tribunale che contesti la diligenza dell’opera.
L’art. 163 comma 3 del RD 267/42 stabilisce che il piano della proposta di concordato e la relativa documentazione devono essere accompagnati dalla relazione di un professionista, che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo.
Con l’attestazione della veridicità dei dati, il professionista analizza le cause della crisi, la sostenibilità del piano di concordato proposto dal debitore, ed evidenzia gli eventuali fattori di rischio.
Con il giudizio di fattibilità, che presuppone l’attestazione di veridicità dei dati aziendali, invece, viene compiuta una valutazione prognostica in ordine alla realizzabilità dei risultati esposti nel piano.
La prestazione del professionista incaricato costituisce l’adempimento di una obbligazione di natura professionale e, pertanto, è soggetta ai canoni di diligenza ex art. 1176 comma 2 c.c.
Nella procedura di concordato però, il commissario giudiziale redige l’inventario del patrimonio del debitore e una relazione particolareggiata sulle cause del dissesto, sulla condotta del debitore, sulle proposte di concordato e sulle garanzie offerte ai creditori di cui all’art. 171 del RD 267/42. Se accerta ad esempio che il debitore ha dissimulato una parte dell’attivo o ha esposto passività inesistenti ne riferisce al tribunale, affinché apra, d’ufficio, il procedimento di revoca dell’ammissione al concordato ex art. 173 del RD 267/42.
Per la Suprema Corte, non assume rilevanza il mancato ricorso, nel caso di specie, alla procedura di revoca, che deve essere intrapresa solo in presenza di atti fraudolenti, o comportamenti non autorizzati, posti in essere dal debitore in concordato. L’omesso accertamento di queste condotte non rappresenta una valutazione di esattezza dell’adempimento dell’obbligazione del professionista che grava a carico del commissario giudiziale.