Non essendo un atto pubblico, il bilancio può essere contestato senza accertare la sua falsità in sede penale o civile
Gli amministratori di una società di capitali, che redigono il bilancio secondo le norme civilistiche di cui agli artt. 2423–2426 c.c., non rivestono la qualità di pubblici ufficiali e, pertanto, il bilancio di esercizio non può essere annoverato fra gli atti che fanno piena prova, sino a querela di falso, della “corrispondenza al vero delle attestazioni” che vi sono contenute ex art. 2700 c.c.
Muovendo da questo assunto la Cassazione, con ordinanza del 24 agosto 2018 n. 21106, giunge a ritenere che l’Agenzia delle Entrate può rettificare il bilancio di esercizio di una società di capitali, contestando i criteri di redazione utilizzati, al fine di far emergere la sussistenza di un debito tributario evaso o l’insussistenza di un credito domandato a rimborso. In questi termini, la Cassazione si è già espressa con l’ordinanza del 30 luglio 2018 n. 20122, che precede l’intervento qui in commento.
Nel caso di specie, l’Agenzia rettificava la dichiarazione di una srl in ragione di un presunto maggiore reddito, accertato sul presupposto che la società non fosse operativa, ma “di comodo” ex art. 30 della L. 724/94.
In seno all’avviso di accertamento, l’Ufficio rilevava che il soggetto societario, avente formalmente ad oggetto l’attività di acquisto, vendita, permuta e valorizzazione di immobili, svolgeva in verità esclusivamente un’attività di locazione dell’unico bene immobile di cui risultava titolare e che il suddetto bene, che nel bilancio figurava nell’attivo circolante, avrebbe dovuto essere indicato tra le immobilizzazioni materiali.
Il mancato superamento dell’esame di “operatività” faceva dunque presumere che si trattasse di una società di comodo, in quanto non operativa, e la riclassificazione (tra le immobilizzazioni) consentiva di accertare un presunto maggiore reddito.
Per la Suprema Corte, il potere di rettificare il bilancio da parte dell’Ufficio trova il suo referente normativo nelle norme antielusive, che “implicitamente” consentono non solo di procedere ad ispezioni e verifiche sulle scritture contabili, ma anche, in presenza di determinati presupposti, di operare l’accertamento in via presuntiva pure riclassificando le poste di bilancio (si allude in sentenza, in via esemplificativa, all’art. 30 della L. 724/94).
Resta salvo, secondo il ragionamento dei giudici di legittimità, il compito del giudicetributario di valutare, sulla scorta delle risultanze di causa, la correttezza della riclassificazione operata dall’Ufficio delle poste di bilancio sulle quali si fonda l’avviso di accertamento, nonché l’idoneità delle stesse a giustificare la maggiore pretesa impositiva, ovvero il diniego di rimborso.
Ciò premesso in punto di fatto e di diritto, giova ai nostri fini segnalare i termini essenziali della problematica.
Sebbene non vada condivisa la premessa, in quanto l’efficacia probatoria dell’atto pubblico, ossia la pubblica fede, ai sensi dell’art. 2700 c.c., non attiene alla verità intrinseca (ossia al contenuto) del documento, ma soltanto a quella estrinseca, la soluzione alla quale giunge la Suprema Corte costituisce espressione del superamentodell’orientamento tradizionale, secondo il quale la contabilità formalmente regolare implica una presunzione legale relativa di veridicità e, conseguentemente, l’inversione dell’onere della prova a carico dell’Amministrazione.
Nei più recenti orientamenti, infatti, anche in presenza di contabilità ineccepibile l’amministrazione può contestare in via presuntiva l’esistenza di irregolarità sostanziali.
La situazione muta, ma di ciò la sentenza non tratta, in presenza di una relazione da parte della società di revisione, recante la certificazione del bilancio della società.
In tali casi, le attestazioni non possono essere disattese dall’Amministrazione finanziaria, se non sono suffragate da prove, non meramente indiziarie ma costituite da documenti idonei a dimostrare la negligenza, o l’errore compiuto dalla società di revisione, nel giudizio di revisione legale (Cass. 12 marzo 2009 n. 5926, Cass. 18 maggio 2018 n. 12285).