Con la nozione di “corruzione” si fa riferimento a diverse tipologie di condotta penalmente rilevante. Innanzitutto vanno distinte le ipotesi di corruzione “pubblica” previste agli artt. 318 e 319 c.p. da quella di corruzione tra privati (art. 2635 c.c.). Si parla inoltre di corruzione attiva e passiva, a seconda che si abbia come prospettiva quella del corruttore (chi paga in cambio di un atto a lui favorevole) o del corrotto (chi riceve il denaro o altra utilità per compiere un determinato atto).
Sanzioni differenti sono, poi, previste a seconda che si tratti di corruzione propria o impropria. Per corruzione propria si intende quella disciplinata dall’art. 319 c.p. che contempla l’ipotesi in cui il soggetto pubblico riceve denaro o altra utilità (o ne accetta la promessa) per omettere o ritardare un atto del suo ufficio, ovvero, per compiere un atto contrario ai doveri del suo ufficio. La condotta si pone qui in contrasto con l’ordinamento e arreca un vero e proprio danno all’amministrazione pubblica.
Diversamente, l’art. 318 c.p. – riscritto dapprima dalla L. 190/2012 e poi, con riferimento ai parametri sanzionatori, dalla L. 69/2015 – disciplina le ipotesi in cui il soggetto pubblico esercita i propri poteri e le proprie funzioni “in modo conforme” ai doveri del suo ufficio, e per tale ragione, indebitamente riceve denaro o altra utilità (o ne accetta la promessa). Fattispecie, dunque, che prescinde dalla necessità di individuare specifici atti oggetto dell’accordo criminoso andando a reprimere anche le condotte caratterizzate dall’asservimento della funzione pubblica ad interessi diversi da quelli propri della collettività.
Proprio in queste ipotesi si pongono alcune tematiche rispetto alla discrezionalità della Pubblica Amministrazione, operata attraverso le scelte e le decisioni dei pubblici ufficiali.
Si prenda, ad esempio, il caso di una tangente destinata ad un membro di una commissione aggiudicatrice di una gara ad evidenza pubblica per recepire indicazioni dal soggetto interessato all’aggiudicazione (ed effettivamente poi risultato aggiudicatario) di un appalto. Laddove nessun profilo di irregolarità fosse stato accertato nello svolgimento della gara, ci chiede se la ricezione della tangente debba essere inquadrata come corruzione propria (reclusione da 6 a 10 anni) o impropria (reclusione da 1 a 6 anni), non essendo chiaramente individuabile l’atto contrario ai doveri d’ufficio e il conseguente danno.
Secondo la giurisprudenza prevalente, integra il delitto di corruzione propria la condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali rinunciando ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere (ex post) con l’interesse pubblico. Ciò vale anche nel caso di un atto sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni, in quanto, ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l’elemento decisivo è costituito dalla “vendita” della discrezionalità accordata dalla legge (tra le tante, Cass. n. 39020/2017).
Costituiscono, cioè, atti contrari ai doveri d’ufficio non soltanto quelli illeciti (perché vietati da atti imperativi) o illegittimi (perché dettati da norme giuridiche riguardanti la loro validità ed efficacia), ma anche quelli che, pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, dall’osservanza di doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, ivi compresi quelli di correttezza ed imparzialità.
D’altra parte, è pacifico che il reato in oggetto possa essere integrato anche mediante atti di natura discrezionale o meramente consultiva, quando essi costituiscano concreto esercizio dei poteri inerenti l’ufficio e l’agente sia il soggetto deputato ad emetterli o abbia un’effettiva possibilità di incidere sul relativo contenuto o sulla loro emanazione. Ed invero, l’atto di natura discrezionale o consultiva non ha mai un contenuto pienamente “libero”, essendo soggetto, per un verso, al rispetto delle procedure e dei requisiti di legge, per altro verso, alla necessità di assegnare comunque prevalenza all’apprezzamento dell’interesse pubblico.
Configura, dunque, il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio – e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione di cui all’art. 318 c.p. – lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, che si traduca in atti, che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati, siano posti in essere nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali (Cass. n. 35940/2017).