Se è un soggetto fiscalmente equiparato alle società di persone non può venire meno il litisconsorzio necessario
Esaminando la più recente giurisprudenza in tema di impresa familiare emerge una forte contraddizione sulla sua natura giuridica: infatti, da un lato si è radicalmente negato il litisconsorzio necessario tra imprenditore e collaboratori, dall’altro si è, altrettanto espressamente, affermato che essa è un soggetto collettivo, che segue, a livello concettuale, le regole di imputazione del reddito delle società di persone.
L’Amministrazione finanziaria ha da sempre ritenuto l’impresa familiare un’impresa individuale, con la conseguenza che, in sede di accertamento del maggior reddito, l’intera imposta non dichiarata viene imputata al solo imprenditore individuale (C.M. 20 febbraio 1984 n. 6; circ. Agenzia delle Entrate 29 aprile 2003 n. 23, § 6).
Tesi che difficilmente può essere condivisa, per un motivo semplicissimo: al ricorrere dei presupposti richiesti dall’art. 5 del TUIR, il meccanismo di imputazione reddituale dell’impresa familiare, salvo eccezioni di legge come avviene per le perdite d’impresa (fatto che si desume dall’art. 8 del TUIR, che non richiama l’impresa familiare) è esattamente lo stesso delle società di persone.
Dunque, non può essere coerente un sistema ove, in fase dichiarativa, sia l’imprenditore sia i collaboratori dichiarano e pagano le imposte secondo le rispettive quote di partecipazione, mentre in sede accertativa tutto il maggior reddito viene imputato all’imprenditore individuale (Cass. 29 novembre 2000 n. 15315).
Conclusione, questa, ribadita recentemente dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5726 del 9 marzo 2018: i giudici sanciscono, senza mezzi termini, che è condivisibile il ragionamento della Regionale, nella parte in cui “i redditi derivanti dall’esercizio della stessa [si allude all’impresa familiare, ndr], stante l’equiparazione della impresa familiare alla società di persone, vanno imputati ai singoli partecipanti a prescindere dalla loro effettiva percezione”. Nel caso di specie, i giudici accolgono però le doglianze del Fisco in quanto, nel peculiare regime dell’imposta sostitutiva ex art. 1 del DLgs. 358/1997, viene derogata la trasparenza fiscale.
Se si sposta il discorso sul versante processuale, l’orientamento più recente della Cassazione sembra andare in tutt’altra direzione.
Nella sentenza n. 30842 del 22 dicembre 2017 si afferma che tra imprenditore e collaboratori, nonostante la trasparenza fiscale, non c’è litisconsorzio necessario. Infatti, l’impresa familiare non è un soggetto collettivo: non “è mutuabile la configurazione propria della società, la cui disciplina non può essere applicata, per incompatibilità, all’esercizio dell’impresa familiare (si veda per tutte Cass., Sez. U, 6.11.2014, n. 23676)”.
Si richiama la giurisprudenza civile, che, però, mal si coniuga con il sistema tributario, ove l’art. 5 del TUIR è lapidario nel prevedere, al ricorrere dei presupposti ivi indicati, la trasparenza fiscale.
Appare evidente la contraddizione in seno agli orientamenti della Cassazione: se c’è trasparenza fiscale ci deve essere litisconsorzio necessario, mentre invece, se si tratta di soggetto individuale e non collettivo, non può esserci la trasparenza fiscale.
Viene però da dire che se, come nel caso in oggetto, la trasparenza fiscale è imposta dal legislatore, non può che esserci il litisconsorzio necessario.
Non è comunque la prima volta che i giudici di legittimità adottano, nel “passaggio” tra fase accertativa e contenziosa, un orientamento che sembra incoerente.
Per giurisprudenza ormai consolidata, tra società di capitali “ristretta” e soci non c’è litisconsorzio necessario negli accertamenti fondati sulla presunzione di distribuzione degli utili extracontabili (Cass. 29 agosto 2017 n. 20507, Cass. 25 maggio 2016 n. 10793).
Eppure, anche in tale fattispecie c’è un meccanismo accertativo del tutto simile a quello delle società di persone.
L’abbandono della tesi del litisconsorzio può essere condiviso adottando un approccio meno tecnico e più concreto.
In primo luogo, se c’è litisconsorzio tra imprenditore e collaboratori, in tutte le cause pendenti in Cassazione si ritorna in primo grado, con lesione dell’economia processuale, posto che, a livello potenziale, il processo globalmente inteso può essere allungato di altri dieci anni.
Inoltre, se l’imprenditore e i collaboratori risiedono in diverse Province, o in diverse zone delle grandi città, muta la competenza della Direzione provinciale e talvolta del giudice, ed emergono problemi di raccordo dei diversi processi che, in taluni casi, si rilevano difficili, se non impossibili, da gestire, come accade per le società di persone.