I patti parasociali – destinati a disciplinare convenzionalmente, ed in qualsiasi forma, l’esercizio di diritti e facoltà dei soci – possono intervenire non solo tra soci, ma anche tra soci e terzi, pur essendo vincolanti esclusivamente tra le parti contraenti e non potendo incidere direttamente sull’attività sociale. Si parla, quindi, di patti “puri”, tra soli soci, ovvero “impuri”, tra soci ed estranei. In entrambe le ipotesi, comunque, tutti i soggetti partecipano all’accordo.
Occorre, peraltro, chiedersi se tali patti possano presentarsi anche come contratti a favore di terzi, ex art. 1411c.c., ai sensi del quale, “è valida la stipulazione a favore di un terzo qualora lo stipulante vi abbia interesse. Salvo patto contrario, il terzo acquista il diritto contro il promittente per effetto della stipulazione. Questa però può essere revocata o modificata dallo stipulante, finché il terzo non abbia dichiarato, anche in confronto del promittente, di volerne profittare. In caso di revoca della stipulazione o di rifiuto del terzo di profittarne, la prestazione rimane a beneficio dello stipulante, salvo che diversamente risulti dalla volontà delle parti o dalla natura del contratto”.
Il patto parasociale deve essere inquadrato nel contratto plurilaterale con comunione di scopo, che si qualifica per la preponderanza, in chi lo stipula, della ragione a contrarre per il raggiungimento dello scopo comune rispetto alla ricezione della controprestazione.
L’art. 1411 c.c., invece, reca una statuizione tipica di un contratto con efficacia esterna ai contraenti, che può accedere ad una pluralità di contratti. La fattispecie si adatta maggiormente al contratto a prestazioni corrispettive, ma non se ne può escludere l’applicabilità anche al contratto con comunione di scopo.
Tale conclusione può dirsi acquisita, nella giurisprudenza di legittimità, in relazione ai patti parasociali che prevedano prestazioni in favore della società, con i soci che si presentano, contestualmente, nella posizione di stipulanti e di promittenti. La Cassazione n. 9846/2014, in particolare, ha sottolineato come il patto parasociale in forza del quale taluni soci si impegnino ad eseguire prestazioni a beneficio della società integri la fattispecie del contratto a favore di terzo, ex art. 1411 c.c., del quale sono legittimati a pretendere l’adempimento sia la società, quale terzo beneficiario, sia i soci stipulanti, moralmente ed economicamente interessati a che l’obbligazione sia adempiuta nei confronti della società (cfr. anche Cass. n. 17200/2013).
Secondo la Corte d’Appello di Firenze del 27 ottobre 2017, peraltro, ciò può valere anche nel caso in cui le prestazioni siano previste in favore dell’amministratore. In particolare, ciò vale per un sindacato di voto in esecuzione del quale i soci si impegnino ad assicurare determinati benefici al manager (nella specie, votarlo per due trienni consecutivi e riconoscergli un aumento dei compensi), che rimane estraneo al patto, pur potendo partecipare alle riunioni dei paciscenti.
Si sottolinea, infatti, come la mera valenza obbligatoria del patto parasociale – che quindi non impedisce ai soci pattisti l’espressione del voto difforme in sede di assemblea societaria per l’elezione degli amministratori – escluda la nullità di un simile patto per violazione di norme imperative poste a tutela della libertà di autodeterminazione in assemblea. In particolare, non è ravvisabile un contratto in frode alla legge, e, quindi, nullo ai sensi del combinato disposto degli artt. 1418 e 1344 c.c., in relazione alle disposizioni dettate in ordine alla durata della carica di amministratore (art. 2383 c.c.) ed al divieto per i soci di conferire all’amministratore delega a farsi rappresentare in assemblea (art. 2372 comma 5 c.c.).
Il patto che disponga la nomina di un amministratore per due trienni consecutivi non si pone in contrasto con l’art. 2383 c.c., che non vieta la rielezione degli amministratori, ma stabilisce semplicemente che questi possano rimanere in carica per un massimo di tre esercizi, dovendo necessariamente tornarsi di fronte all’assemblea al termine di quel periodo per poter essere rieletti e, di conseguenza, per vedersi riaccordata quella fiducia che deve contraddistinguere il rapporto tra compagine sociale ed amministratori. I limiti previsti dal 2383 c.c. non sono posti a tutela dell’ordine pubblico, ma a tutela del buon funzionamento degli organi sociali, ratio pienamente rispettata dal patto parasociale in questione, che non elude la disciplina, ma anzi la riproduce pienamente.
Neppure è configurabile nullità per elusione del principio sotteso all’art. 2372 comma 5 c.c., in ragione del fatto che il soggetto destinato ad assumere la carica di amministratore può partecipare alle riunioni dei paciscenti ed influenzarne le decisioni. Il divieto di conferire la rappresentanza in assemblea, tra gli altri, all’organo gestorio, infatti, è posto a tutela dell’assetto organizzativo delle funzioni societarie, che non è minimamente in discussione, perché, si ribadisce, anche se vincolato dal patto parasociale, il socio non perde la possibilità di scegliere, e perché non si tratta di sindacato gestorio, ma di sindacato di voto. I soci si impegnano alla elezione di un certo amministratore, ma nessun nesso vi è con l’attività che quel determinato amministratore porrà in essere; e il principio di diversità delle funzioni spettanti ai singoli organi societari è pienamente rispettato.