La L. 205/2017 (legge di bilancio 2018) è intervenuta in modo significativo sul sistema di tassazione dei dividendi esteri.
La circ. Agenzia delle Entrate n. 35 del 4 agosto 2016 fissava il principio per cui ogni valutazione, circa il relativo carattere “paradisiaco”, dovesse essere operata sulla base del criterio vigente nel periodo d’imposta di loro percezione, imponendo così il ricorso al criterio riportato dall’art. 167 commi 1 e 4 del TUIR: tale norma, nella versione innovata dalla L. 208/2015, identifica come privilegiati i regimi fiscali, anche speciali, extra Ue ed extra SEE che offrono un livello di tassazione nominale inferiore alla metà della somma delle aliquote IRES ed IRAP. Al contribuente, in particolare, era chiesto di operare sulla scorta di esso una prima verifica nel periodo di percezione del dividendo e, in caso di esito favorevole, una seconda verifica, auspicata positiva, nel periodo di maturazione degli utili che lo avevano generato. L’esito negativo iniziale era invece “tombale” e il flusso in questione scontava il rischio di una gravosa tassazione in Italia.
La L. 205/2017 ha delineato in modo assai difforme lo scenario, obbligando a prestare attenzione, sulla scorta del criterio vigente ratione temporis, alla situazione esistente nel periodo di maturazione dell’utile distribuito: in particolare, una verifica dal risultato positivo in quest’ultimo è sempre “salvifica”, mentre un esito negativo non comprometterebbe del tutto, almeno secondo alcuni autori, la possibilità di invocare il regime di tassazione “ordinario” in Italia.
La disciplina solleva più questioni applicative di incerta soluzione. Il sistema delineatosi, infatti, impone al socio italiano di “interrogare” la partecipata estera per avere un riscontro circa il periodo d’imposta in cui l’utile percepito è maturato e quindi circa la verifica da operare: è facile osservare come la possibilità di avere una risposta riposi sull’avvenuta adozione, da parte della società oltreconfine, di un sistema di registrazione delle stratificazioni temporali dei propri utili e dei relativi utilizzi, cosa questa tutt’altro che scontata.
È poi vero che la L. 205/2017 ha introdotto, per le situazioni variegate, un criterio di prioritaria distribuzione degli utili non formatisi quando la società era a regime privilegiato, ma anche questo meccanismo può funzionare se e nella misura in cui vi sia piena trasparenza sull’origine temporale delle poste di utili esistenti presso il soggetto estero e sulla relativa movimentazione. Tale processo di disclosure, peraltro, potrebbe essere del tutto precluso al socio italiano che non detiene nel soggetto estero una partecipazione di controllo, parimenti in difficoltà per sapere se, dal 2015 in poi, quest’ultimo ha usufruito di un qualche regime fiscale privilegiato speciale: in altre parole, le sue richieste potrebbero rimanere inevase; del pari, il sistema giuridico locale potrebbe non riconoscergli diritti di informativa sul punto da parte dell’organo di gestione.
Gli ostacoli che si frappongono tra il socio italiano e i suoi investimenti oltreconfine non sono però finiti: allargando la prospettiva, infatti, più di un dubbio sorge circa le attuali modalità di applicazione della participation exemption (art. 87 del TUIR).
Il comma 1 della norma, in particolare, richiede ai fini del riconoscimento della parziale esenzione da tassazione della plusvalenza, tra le altre, che la società partecipata non sia residente in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, anche speciale, di cui all’art. 167 commi 1 e 4 del TUIR. Il comma 2 dell’art. 87 del TUIR, a sua volta, afferma che tale requisito deve sussistere “ininterrottamente, al momento del realizzo, almeno dall’inizio del terzo periodo d’imposta anteriore al realizzo stesso”.
L’Agenzia delle Entrate ha fornito in merito, nel corso degli ultimi anni, indicazioni contraddittorie:
– nella circ. n. 7/2013 (§ 9), infatti, si richiede che la residenza virtuosa sia in verità provata “sin dall’inizio del periodo di possesso” della partecipazione e per almeno un triennio, in un’ideale, seppur dottrinalmente criticata, continuità con la lettera dell’esimente riportata dal precedente comma 1 della norma, alla lett. c);
– nella circ. n. 35/2016 (§ 3.2 e § 3.3), invece, si richiede di collegare analiticamente la plusvalenza alla maturazione di utili pregressi, con tutte le evidenti difficoltà del caso, al fine di indagare, così sembrerebbe, i soli periodi d’imposta di realizzo della prima e di produzione dei secondi.
Ferma restando questa irrisolta divergenza di istruzioni, c’è ulteriormente da chiedersi se, forti della ratio del sistema che ha debuttato con la legge di bilancio 2018, sia ancora valida l’impostazione cara alla circ. n. 35/2016, secondo cui, entro la disamina a ritroso nel tempo, assumerebbe sempre rilievo il criterio valevole nel periodo di realizzo: in altre parole, non è affatto chiaro se per i periodi d’imposta antecedenti al 2015 si debba (ancora) confrontare, in relazione a una plusvalenza relativa a partecipazioni in società extra UE o extra SEE, il livello nominale di tassazione locale, applicato anche in ragione di regimi speciali, con la metà di quello operante al tempo in Italia, o se invece, più semplicemente, sia divenuto sufficiente il controllo del DM 21 novembre 2001 allora in vigore.