La Corte di Giustizia mette un punto fermo sulla tassazione di tali beni, imponendo una revisione delle normative nazionali, tra cui quella italiana

La sentenza della Corte di Giustizia relativa alla causa C-110/17 di ieri ha sancito il principio per cui la diversa commisurazione del reddito degli immobili situati in un determinato Stato rispetto a quella degli immobili esteri è suscettibile di ledere la libera circolazione dei capitali, garantita dall’art. 63 del Trattato di funzionamento dell’Unione europea. La pronuncia conferma, quindi, quanto era già emerso nella precedente sentenza C-489/13 dell’11 settembre 2014, riferita però al particolare caso del regime dei redditi immobiliari previsto dalla Convenzione tra Belgio e Francia, aprendo la strada ad una potenziale revisione delle norme nazionali che regolano la fattispecie, tra cui quelle che l’Italia detta nell’art. 70 del TUIR.

La nuova sentenza ha ad oggetto le disposizioni fiscali del Belgio, le quali prevedevano all’epoca dei fatti una tassazione differenziata per i fabbricati non locati, o concessi in locazione a persone fisiche non imprenditori, a seconda che l’immobile fosse situato in Belgio o all’estero. Nel primo caso, infatti, il reddito imponibile era determinato sulla base della rendita catastale maggiorata del 40%; nel secondo, invece, si prendeva a riferimento il canone di locazione o un valore locativo; più precisamente, per gli immobili situati nell’Unione europea o in uno Stato appartenente allo Spazio economico europeo, il reddito imponibile era determinato in base al canone effettivamente percepito per gli immobili locati e in base ad un valore locativo stimato per gli immobili non locati. Quest’ultimo, a sua volta, era determinato secondo la prassi nazionale in base ad un canone stimato dallo Stato estero ai fini della determinazione dell’imposta a sé spettante ridotto delle spese direttamente inerenti (con detrazione, in sede di determinazione dell’imposta netta, dell’imposta assolta nell’altro Stato).

Per la Corte Ue, anche se non risulta sempre accertato che la rendita catastale belga, pur rivalutata e maggiorata del 40%, sia inferiore al valore locativo, nei fatti sussiste una discriminazione a danno dei possessori di immobili esteri, i quali si ritroverebbero ad assolvere un’imposta nella gran parte dei casi più elevata rispetto a quella che graverebbe sui medesimi beni, qualora situati in Belgio e destinati al medesimo utilizzo; questa discriminazione, essendo idonea a disincentivare gli investimenti in beni immobili in altri Stati comunitari, vìola quindi la libera circolazione dei capitali e deve conseguentemente essere rimossa.

La sentenza pone, quindi, alcuni interrogativi sull’effettiva idoneità della norma nazionale (art. 70, comma 2 del TUIR) a garantire la parità di trattamento tra immobili nazionali e immobili esteri.
In termini generali, essa prevede:
– che i redditi degli immobili situati all’estero concorrano alla formazione del reddito in base all’ammontare netto risultante dalla valutazione effettuata nello Stato estero;
– che i redditi dei fabbricati non soggetti a imposte sui redditi nello Stato estero concorrano a formare il reddito complessivo per l’ammontare percepito nel periodo di imposta, ridotto del 15% a titolo di deduzione forfetaria delle spese.

In estrema sintesi, per gli immobili locati in Stati che (come di regola) tassano i redditi da locazione, la norma considera imponibile in Italia il reddito così come determinato nello Stato estero, senza deduzione di spese (così affermano le istruzioni al quadro RL del modello REDDITI e la ris. DRE Lombardia n. 12155 del 15 febbraio 2010). Nelle circolari n. 45/2010 (§ 4.1) e n. 13/2013 (§ 5.2) la stessa Agenzia delle Entrate ha invece precisato che è possibile prendere in considerazione le spese strettamente inerenti l’immobile (pur se ciò non è indicato, può trattarsi di imposte locali, compensi a intermediari immobiliari, oneri condominiali ecc.); l’apparente contrasto dovrebbe essere risolvibile nel senso che l’importo da tassare in Italia è quello imponibile nello Stato estero, assunto al netto delle spese strettamente inerenti, ma non – ad esempio – di deduzioni generali per i canoni di locazione.

Posto che sulla questione occorrerebbe una conferma espressa, in ogni caso i regimi di determinazione del reddito sono differenti rispetto a quelli previsti per gli immobili italiani, per i quali il reddito da locazione è ridotto forfetariamente del 5% (percentuale, peraltro, diversa anche da quella – 15% – che l’art. 70 prevede per l’abbattimento dei redditi da locazione prodotti in Stati che non assoggettano a tassazione tali proventi).
Il problema sembra invece non sussistere per gli immobili non locati, per i quali l’assoggettamento all’IVIE disattiva le regole dell’art. 70 comma 2 del TUIR.

Altre differenze possono generarsi, ad esempio, per l’opzione per la cedolare secca, preclusa secondo la prassi dell’Agenzia delle Entrate per gli immobili esteri, o per la determinazione dei fringe benefit per i fabbricati concessi in uso ai dipendenti, che l’art. 51 comma 4 lettera c) del TUIR lega alla rendita catastale del fabbricato, se questo è iscritto in catasto, o al valore del canone di locazione, per i fabbricati non iscritti in catasto (come quelli ubicati all’estero).
La sentenza C-110/17 imporrà una revisione complessiva ed organica di queste disposizioni, nell’ottica della parificazione tra beni esistenti in Italia e beni esistenti all’estero.