Da risarcire anche i crediti non recuperati ed i costi fittizi pagati
Il Tribunale di Roma, nella sentenza n. 24233/2017, si sofferma sulla responsabilità degli amministratori per mancato pagamento di imposte, omesso adoperarsi nel recupero di crediti, iscrizione in bilancio di crediti dubbi e di pagamenti relativi a fatture false. Ciò nel contesto di una cooperativa cui trovavano applicazione le disposizioni dettate in tema di spa.
L’inadempimento degli amministratori ai loro obblighi può essere fatto valere, in caso di danni, dalla società danneggiata, ex art. 2393 c.c., o direttamente dai soci titolari (nelle società “chiuse”) di almeno 1/5 del capitale sociale, ex art. 2393-bis c.c. In caso di fallimento della società, tuttavia, la legittimazione attiva a proporre l’azione sociale di responsabilità si trasferisce, ai sensi dell’art. 146 comma 2 lett. a) del RD 267/1942, al curatore fallimentare. L’azione sociale, anche se esercitata dal curatore fallimentare, conserva natura contrattuale, in quanto trova la sua fonte nell’inadempimento dei doveri imposti agli amministratori dalla legge o dall’atto costitutivo, ovvero nell’inadempimento dell’obbligo generale di vigilanza o dell’altrettanto generale obbligo di intervento preventivo e successivo.
La violazione degli obblighi gravanti sugli amministratori – e quindi l’accertamento dell’inadempimento da parte di costoro agli obblighi imposti dalla legge e/o dallo statuto – costituisce presupposto necessario, ma non sufficiente per affermare la responsabilità risarcitoria da parte degli stessi; occorre, infatti, anche la prova del danno, ossia del deterioramento effettivo e materiale della situazione patrimoniale della società, e la diretta riconducibilità causale di detto danno alla condotta omissiva o commissiva degli amministratori stessi (cfr. Cass. n. 5876/2011).
Il nesso causale rileva non solo come parametro per l’accertamento della responsabilità risarcitoria degli amministratori, ma anche da un punto di vista oggettivo: consente, come regola generale, di limitare l’entità del risarcimento all’effettiva e diretta efficienza causale dell’inadempimento, ponendo a carico degli amministratori inadempienti solo il danno direttamente riconnesso alla loro condotta omissiva o commissiva.
A fronte di tali premesse generali, i giudici romani sottolineano come il danno derivante dal mancato pagamento delle imposte dovute dalla società fallita, concretamente riferibile alla condotta (quanto meno) colposa dell’amministratore, non coincida con l’importo dell’imposta il cui pagamento sia stato omesso. Tale danno, infatti, può essere ravvisato esclusivamente nelle sanzioni e negli interessi irrogati alla società a seguito dell’accertamento fiscale compiuto dagli enti competenti. Ciò in quanto il comportamento dell’amministratore non incide sulla debenza o meno dell’imposta (circostanza legata ad altri presupposti), ma soltanto sugli aggravi (interessi e sanzioni) derivanti dall’omesso pagamento.
L’amministratore, inoltre, risponde dell’omesso tentativo di recuperare crediti vantati dalla società fallita nei confronti di altra società (nella specie, riconducibile al medesimo amministratore), ove non riesca a dimostrare che una eventuale azione non avrebbe comunque avuto successo. È da affermare, ancora, la responsabilità dell’amministratore a fronte dell’iscrizione in bilancio di costi relativi a fatture false (anche queste, nella specie, emesse da società riconducibili all’amministratore stesso), finalizzate a creare (e pagare) debiti fittizi a carico della società.
L’iscrizione di un credito di dubbia esistenza (o problematico) in bilancio, invece, non importa l’esistenza di un danno per la società pari all’importo iscritto. L’iscrizione di una posta attiva non effettiva o fittizia, tuttavia, potrebbe costituire mezzo per occultare il dissesto della società, in modo tale da consentire la prosecuzione dell’attività imprenditoriale pur in presenza di una causa di scioglimento; ma tale circostanza deve essere almeno allegata, non potendo altrimenti essere presa in considerazione dal giudice.
In presenza di simili condotte non è possibile richiedere un risarcimento di importo pari all’intero ammontare del deficit fallimentare. Come precisato dalla pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite n. 9100/2015, tale criterio può essere utilizzato soltanto per una liquidazione equitativa del danno, ove ne ricorrano le condizioni. Per gli addebiti ritenuti fondati sopra ricordati, invece, è certamente possibile determinare il danno correlato dal punto di vista eziologico.
Così determinato il danno da risarcire, poi, occorre considerare che esso dà luogo a un debito di valore, avendo per contenuto la reintegrazione del patrimonio del danneggiato nella situazione economica preesistente al verificarsi dell’evento dannoso, con la conseguenza che nella liquidazione del risarcimento deve tenersi conto della svalutazione monetaria verificatasi tra il momento in cui si è prodotto il danno e la data della liquidazione definitiva. Ciò, peraltro, vale anche se, al momento della sua produzione, il danno consista nella perdita di una determinata somma di denaro, in quanto quest’ultima vale soltanto ad individuare il valore di cui il patrimonio del danneggiato è stato diminuito e può essere assunta come elemento di riferimento per la determinazione dell’entità del danno.