La piena consapevolezza del commercialista poteva dedursi anche dai solidi rapporti con i gestori delle «cartiere»
A fronte di un sistema di relazioni e strutture societarie volte all’emissione e all’utilizzo di fatture false, oltre che alla indebita compensazione di crediti inesistenti, possono venire in considerazione una pluralità di reati tributari (art. 2, 8 e 10-quater del DLgs. 74/2000), unificati dal reato di associazione per deliquere (art. 416 c.p.), nonché la responsabilità degli enti prevista dal DLgs. 231/2001.
Nella sentenza n. 15788 depositata ieri, la Cassazione affronta numerose questioni di diritto sia sostanziale che procedurale, in relazione alla creazione “a tavolino” di un sistema costituito di tre livelli societari, attraverso il quale si dava vita ad un ingente credito IVA a favore di una spa mediante l’uso di fatture false di acquisto emesse da società “cartiere”, nonché mediante l’emissione di fatture altrettanto false da parte della medesima spa. Contestualmente, veniva consentita l’utilizzazione di crediti fittizi relativi all’IVA, da portare in compensazione delle somme dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali per dei lavoratori dipendenti, fittiziamente operanti per la spa ma assunti formalmente dalle stesse “cartiere”, al fine di abbattere il costo della manodopera (anche attraverso l’intermediazione di un’altra società appositamente costituita).
Ideatori di tutto questo articolato meccanismo erano l’amministratore della citata spa, unitamente al commercialista e consulente contabile delle società “cartiere” coinvolte.
Proprio in relazione al professionista, la Cassazione precisa che la piena consapevolezza di costui poteva dedursi dai “solidi rapporti con i gestori di fatto delle cartiere”, a fronte dei quali “egli certamente non poteva che avvedersi, alla luce della sua conclamata esperienza professionale, della loro operatività solo fittizia”.
Interessante può essere anche evidenziare il passaggio in cui viene specificato che, rispetto al reato previsto all’art. 10-quater del DLgs. 74/2000, l’assoggettamento delle fatture al cosiddetto “reverse charge” non comporta, in termini assoluti, una sottrazione al regime impositivo dell’operazione fatturata, quanto una diversa allocazione degli oneri da adempiere, dal soggetto erogante la prestazione (attestata dalla fattura) alla società destinataria della stessa: dunque è come fosse proprio quest’ultima ad operare la relativa compensazione illecita.
Nel procedimento in esame era, poi, stata contestata anche la responsabilità della società beneficiaria dell’evasione ai sensi del DLgs. 231/2001.
Va ricordato che i reati tributari ad oggi non rientrano tra i reati-presupposto della responsabilità degli enti, sebbene da molte parti si ipotizzi un loro prossimo inserimento nel DLgs. 231/2001 e la recente Direttiva PIF (2017/1371) abbia dato nuova vita al dibattito con particolare riferimento alle “frodi IVA”.
Nell’ambito applicativo “231” rientrano, però, alcune tipologie di illeciti che, talvolta, fungono da vie d’accesso per la rilevanza di alcuni reati fiscali anche nei procedimenti avverso un ente: si tratta, in particolare, dei reati di associazione per delinquere (art. 416 c.p.), dei reati transnazionali (L. 146/2006) e – più di recente e in modo più controverso – del delitto di autoriciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.). Nel caso di specie, in effetti, la difesa contestava proprio la possibilità di configurare la responsabilità dell’ente nel caso di reato associativo finalizzato alla commissione di reati tributari.
D’altra parte, ci si domanda quale sia il rapporto tra fallimento della società e responsabilità della stessa (dal momento che la società in questione era nel frattempo fallita).
Durante il fallimento l’ente continua ad essere soggetto passivo della sanzione pecuniaria, di cui risponde con il suo patrimonio ai sensi dell’art. 27 del DLgs. 231/2001; tanto è vero che il legislatore non prevede tale circostanza tra le vicende modificative dell’ente che possono incidere sulla responsabilità (artt. 28 e seguenti del DLgs. 231/2001).
Tra l’altro, la Cassazione riconosce qui – a differenza del noto caso affrontato dalle Sezioni Unite nella pronuncia n. 11170/2015 – la legittimazione processuale del curatore fallimentare, rispetto al liquidatore che era stato legale rappresentante fino al momento della dichiarazione di fallimento. Per la Terza Sezione penale non può certo affermarsi che, dopo l’apertura del fallimento, il legale rappresentante sia sempre il curatore, poiché in limitati casi, permane la legale rappresentanza del soggetto originariamente investito dei relativi poteri (ad esempio, per presentare istanza di concordato fallimentare). Tuttavia, è il curatore il soggetto legittimato a rappresentare l’ente nel procedimento ex DLgs. 231/2001, “potendo configurarsi, in conseguenza dell’applicazione della relativa sanzione, il sorgere di un credito privilegiato dell’Erario nei confronti del fallimento”.