Se il pagamento avviene l’attenuante o la causa di non punibilità dovrebbero però permanere
Il ravvedimento operoso e, più in generale, il pagamento dell’intero debito tributario (inclusi sanzioni e interessi) anche a seguito di una qualsivoglia procedura di adesione o conciliazione, può rappresentare non solo un’attenuante penale ma anche una causa di non punibilità del reato, ai sensi degli artt. 13 e 13-bis del DLgs. 74/2000.
Relativamente al delitto di dichiarazione infedele (art. 4 del DLgs. 74/2000), l’invio della dichiarazione emendata degli errori entro il termine di presentazione di quella relativa all’anno successivo e prima dell’inizio di un controllo fiscale/penale, in occasione del ravvedimento operoso, è una causa di non punibilità del reato.
In relazione agli altri reati disciplinati dal DLgs. 74/2000, il ravvedimento operoso, se il pagamento avviene entro la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, ha l’effetto di circostanza attenuante, e la pena può essere diminuita sino alla metà.
L’attenuante, dopo il DL 138/2011, è diventata anche presupposto per chiedere il c.d. “patteggiamento” ex art. 444 c.p.p.
Nonostante ciò, l’Agenzia delle Entrate continua a sostenere che il ravvedimento operoso non è ammesso nelle ipotesi fraudolente siccome non si rientra nel concetto di “errore” o di “omissione” da ravvedere ex art. 13 del DLgs. 472/97 (detto orientamento trae origine nella circolare n. 180 del 1998, e ha trovato recente conferma in Telefisco 2018, ad opera sia delle Entrate che della Guardia di Finanza).
Ciò sebbene, nel sistema attuale, il ravvedimento possa rappresentare, in taluni casi, non solo il presupposto per la non punibilità o per l’attenuante, ma, indirettamente, addirittura per il patteggiamento, in relazione a reati che possono essere solo dolosi (circostanza che, forse, ha indotto la Cassazione ad adottare la tesi opposta, cfr. la pronuncia 6 febbraio 2018 n. 5448).
La problematica apre scenari interessanti inerenti al raccordo tra processo penale e procedimento/processo tributario.
Se il contribuente paga per intero le imposte, ad esempio a seguito di acquiescenza (art. 15 del DLgs. 218/97), definizione dell’avviso bonario (artt. 2 e 3 del DLgs. 462/97) o adesione (istituti pacificamente ammessi anche per condotte dolose), non ci sono dubbi sull’effetto, a seconda delle ipotesi, di attenuante o di causa di non punibilità e, di riflesso, non ci sono cause ostative per il patteggiamento.
Ma che succede se il contribuente si ravvede per una condotta fraudolenta e, per questa ragione, le Entrate disconoscono il ravvedimento?
Rammentiamo che l’art. 13 del DLgs. 74/2000 subordina gli effetti premiali indicati non al generico “pagamento” del debito fiscale, ma all’intera estinzione del debito, inclusi sanzioni e interessi, “anche” a seguito di una qualsivoglia procedura conciliativa.
Dunque, non si può sostenere che il disconoscimento del ravvedimento sia evento di per sé privo di conseguenze.
Tuttavia, non esiste alcuna pregiudiziale tributaria in materia: anzi, in ragione dell’art. 20 del DLgs. 74/2000, i due processi (quello penale e quello tributario) non possono essere sospesi nell’attesa che l’altro termini (principio del doppio binario).
In ragione di ciò, si può ritenere che il giudice penale (ma anche lo stesso PM in sede di eventuale archiviazione) possa eseguire un vero e proprio sindacato incidentale sulla validità del ravvedimento operoso su condotte fraudolente, prescindendo da quella che è l’opinione dell’Amministrazione finanziaria.
Ove si formasse un giudicato delle Commissioni tributarie, il giudice penale non avrebbe alcun vincolo di conformazione, ma dovrebbe esaminarlo con vaglio critico.