Anche le risultanze di indubbia rilevanza devono essere correttamente contrapposte a quelle di valenza contraria
La responsabilità penale del contribuente non può essere dichiarata se i mezzi fraudolenti, che costituiscono la condotta prevista e punita dall’art. 3 del DLgs. 74/2000, non sono stati oggetto di rigoroso accertamento probatorio.
Il principio, in verità indiscutibile, si ricava dalla sentenza della Cassazione n. 10182 depositata ieri.
L’art. 3 del DLgs. 74/2000 (“dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici”) sanziona, fermo il superamento di soglie di punibilità, “chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi”.
Si tratta di una fattispecie, testualmente residuale (“fuori dai casi previsti dall’art. 2”) rispetto al reato di “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, che la riforma del 2015 ha inteso ampliare a mezzo dell’eliminazione del previgente requisito della “falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie”, con una struttura ora “bifasica”, in quanto il reato si perfeziona con la dichiarazione mendace (prima fase), supportata dalla commissione di operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente, ovvero, in via alternativa, l’utilizzo di documentazione falsa o di altri mezzi fraudolenti (seconda fase).
È allora necessaria, per la realizzazione del “mezzo fraudolento”, la sussistenza un quid pluris che, affiancandosi alla falsa rappresentazione offerta nella dichiarazione, consenta di attribuire all’elemento oggettivo una valenza di insidiosità, derivante dall’impiego di artifici idonei a consentire l’evasione fiscale impedendone l’accertamento (Cass. n. 2292/2013).
Nel caso di specie oggetto dell’attenzione della Corte era un contratto preliminare, concernente un’operazione immobiliare di cospicuo valore, che i giudici di merito avevano ritenuto simulato e tale da costituire mezzo fraudolento, ai sensi del citato art. 3, perché volontariamente non adempiuto dal promittente venditore e causa, quindi, della corresponsione di una gravosa penale, indicata in dichiarazione dallo stesso come elementi passivi fittizi.
In realtà, la Corte evidenzia analiticamente il complesso di elementi indiziari a sostegno della fraudolenza negoziale: tra gli altri, l’assenza di data certa, della registrazione e della trascrizione dell’atto; l’omesso versamento di una caparra da parte della società promittente acquirente, peraltro neppure prevista nel preliminare pur a fronte di un modesto capitale sociale vantato dalla stessa; la previsione di una penale, poi risultata versata, eccessiva rispetto al valore dell’operazione, peraltro aumentato in modo rilevante in soli due giorni senza trattative documentate o scambio di comunicazioni.
Tuttavia, queste risultanze, di indubbia rilevanza, non erano state dai giudici di merito correttamente contrapposte a differenti emergenze probatorie, di valenza contraria: ad esempio, l’effettivo versamento della cospicua penale; l’assenza di particolari relazioni tra le due società (di controllo o rilevante partecipazione); la carenza di prova circa un “ritorno” di tale somma alla promittente venditrice. Circostanze che ponevano in dubbio, ad avviso della Corte, l’affermazione di responsabilità del ricorrente fondata su un “salto logico” dei giudici di merito e che rendevano necessario un approfondimento argomentativo circa i singoli passaggi motivazionali concernenti la fraudolenza dell’operazione.
Tuttavia, l’intervenuto decorso del termine prescrizionale, ha comportato l’annullamento della sentenza impugnata, senza che a tal fine venisse disposto rinvio ad altro giudice di appello.