La rassegna dei reati presupposto si deve fondare su tipi e modalità di fatti sintomatici di un illecito arricchimento che trascenda la singola vicenda
Negli ultimi anni il legislatore è intervenuto ripetutamente sul disposto dell’art. 12-sexies del DL 306/1992 che disciplina la c.d. confisca “allargata”, muovendosi nel senso dell’intensificazione e dell’estensionedell’ambito operativo di tale provvedimento (cfr., da ultimo, il DLgs. 202/2016, la L. 161/2017 e il DL 148/2017).
Tale strumento – così come quello della confisca di prevenzione prevista dal DLgs. 159/2011 – è giustificabile nel nostro ordinamento e nel nostro sistema costituzionale per il suo carattere “di prevenzione speciale”, commisurato a gravi forme di criminalità organizzata fondate sul profitto.
Tuttavia, sebbene l’obiettivo della norma sia quello del contrasto all’accumulazione dei patrimoni della criminalità organizzata, soprattutto mafiosa, e alla loro infiltrazione massiccia nel circuito economico, la scelta dei “reati presupposto” è risultata fin dal principio più ampia rispetto a tali ambiti: sin dall’origine, l’art. 12-sexies ha fatto riferimento ad una serie di altri delitti – quali l’estorsione, il sequestro di persona a scopo di estorsione, l’usura, il riciclaggio, il reimpiego, l’intestazione fittizia di beni, il traffico illecito di stupefacenti, il contrabbando aggravato e la ricettazione – i quali, pur essendo considerati tipici della criminalità organizzata, possono essere anche del tutto estranei ad essa.
Significativa è stata anche l’estensione della confisca “allargata” ad un’ampia platea di delitti contro la pubblica amministrazione, disposta dall’art. 1 comma 220 della L. 296/2006 (legge finanziaria 2007).
Recentemente, la Corte Costituzionale ha preso posizione circa la legittimità del modello di “confisca per sproporzione”, a cui sono riconducibili sia la confisca in esame, sia la confisca di prevenzione di cui al DLgs. 159/2011 (anche questa oggetto di interventi normativi di carattere estensivo).
In particolare, la sentenza n. 33 del 21 febbraio scorso ha affrontato il tema dell’inclusione del reato di ricettazione (art. 648 c.p.) tra quelli che possono giustificare tale forma di confisca.
Secondo la Consulta non si pone alcuna violazione del principio di uguaglianza previsto dall’art. 3 Cost., in quanto la ricettazione (reato contro il patrimonio, integrato dal fatto di chi, a fini di profitto, “acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare”) resta, per sua natura, un delitto idoneo a determinare un’illecita accumulazione di ricchezza e suscettibile di essere perpetrato in forma “professionale” o, comunque sia, continuativa.
La presunzione di origine illecita dei beni del condannato insorge, d’altro canto, non per effetto della mera condanna, ma unicamente ove si appuri – con onere probatorio a carico della pubblica accusa – la sproporzione tra detti beni e il reddito dichiarato o le attività economiche del condannato stesso; sproporzione che – secondo i correnti indirizzi giurisprudenziali – non consiste in una qualsiasi discrepanza tra guadagni e possidenze, ma in uno squilibrio incongruo e significativo, da verificare con riferimento al momento dell’acquisizione dei singoli beni.
In questa prospettiva – come rilevato anche dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 920/2004 – la disposizione in esame si presenta espressiva di una “scelta di politica criminale del legislatore, operata con l’individuare delitti particolarmente allarmanti, idonei a creare una accumulazione economica, a sua volta possibile strumento di ulteriori delitti, e quindi col trarne una presunzione (relativa) di origine illecita del patrimonio sproporzionato a disposizione del condannato per tali delitti”.
È solo questa discrepanza ad integrare la condizione in presenza della quale si presume “che il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone”.
Come detto, tale presunzione è solo relativa, rimanendo al condannato la facoltà di superarla mediante una mera allegazione di elementi che rendano credibile la provenienza lecita dei beni, senza che si verifichi alcun inversione dell’onere della prova. Particolare rigore nell’accertamento dovrà aversi proprio quando si tratti di reati che non implichino un programma criminoso dilatato nel tempo (come nel caso della ricettazione) e che non risultino commessi in forma organizzata.
Va detto, però, che la Consulta non può fare a meno di sottolineare l’esigenza che la rassegna dei reati presupposto “si fondi su tipologie e modalità di fatti in sé sintomatiche di un illecito arricchimento del loro autore, che trascenda la singola vicenda giudizialmente accertata”. Viene, cioè, auspicato un atteggiamento di maggiore specificità da parte del legislatore nella selezione delle fattispecie che possono divenire “segnali d’allarme” per illeciti arricchimenti del loro autore, proprio al fine di non violare le garanzie proprie del nostro ordinamento penale.